Come ripensare la comunicazione sui diritti delle persone con disabilità?

a cura di Giovanni Merlo*
Appare necessario ripensare la comunicazione come strumento fondamentale per la promozione e tutela dei diritti delle persone con disabilità: è sostanzialmente questo l’esito più evidente del percorso formativo “I sorrisi non bastano”, promosso dalla Federazione FISH all’interno del progetto “Welfare 4.0 – Per una definizione di un welfare comunitario di inclusione”, e svoltosi dal luglio dello scorso anno fino a questo mese di febbraio in sei tappe (Perugia, Lamezia Terme, Gorizia, Napoli, Milano e Terni), coinvolgendo 36 relatori e 530 partecipanti

Elaborazione grafica basata su varie parole (al centro "disabilità")È facile constatare come la parola comunicazione faccia rima con la parola associazione: una coincidenza che segnala una parentela tra l’atto di “mettere in comune” (cioè comunicare) e quello di “andare verso il compagno”, che è la radice della parola associazione.
Ancora oggi, nonostante diversi passi in avanti, la gran parte delle organizzazioni che compongono il movimento associativo delle persone con disabilità e delle loro famiglie pensano alla comunicazione spesso come strumento per raggiungere uno scopo concreto: pubblicizzare un evento, promuovere campagne fondi, raccogliere volontari.
I mezzi di informazione come la comunicazione generata dai social sembrano dunque faticare ad uscire da vecchi moduli. Certo, dalla penna e dalla voce dei giornalisti non escono più – o sempre meno – parole offensive o clamorosamente inappropriate quando si parla di disabilità. Non è difficile verificare, però, come persistano certi schemi e certi cliché, quando si parla di disabilità, che non sempre consapevolmente alimentano stigmi e pregiudizi.
Quando si deve scegliere quale “storia di disabilità” raccontare si fa infatti un’enorme fatica ad uscire dal bipolarismo tra dramma (della malattia? della solitudine? Della povertà? Dell’essere ostaggio della condizione di disabilità?) ed eroismo (di chi “nonostante tutto” ce la fa ad avere successo nello sport o nel lavoro o, in generale nella vita…). Così diventa difficile raccontare le condizioni ordinarie di vita delle persone con disabilità e dei loro familiari e, in particolare, le situazioni quotidiane di discriminazione, a scuola, nel lavoro, in famiglia e nella vita sociale.

La parola che sembra più facile da abbinare alla disabilità è ancora “difficoltà” e non discriminazione. Giornalisti e operatori della comunicazione sono certo preoccupati del linguaggio da utilizzare, ma non appaiono ancora in grado di raccontare, nella quotidianità del loro lavoro, qualcosa di diverso dall’inaugurazione di un nuovo centro diurno o dalla denuncia per la presenza di barriere architettoniche nella stazione del paese.
Ci preoccupiamo poco, invece, dell’accessibilità dei nostri mezzi di informazione: anche quando si scrive di disabilità, non ci si preoccupa se poi effettivamente tutte le persone con disabilità potranno mai leggere e comprendere quanto è stato scritto.
Sono problemi che riguardano i professionisti del settore, ma anche la stessa rete associativa che non sembra badare a cosa stia comunicando, a chi e con quali effetti.
Molte associazioni sono molto concentrate sul “fare”, ovvero su come contribuire efficacemente a migliorare la qualità della vita delle persone, offrendo servizi e supporti di vario genere, in campo sociale, educativo, sanitario o legale. La dimensione politica spesso si chiude – quando ci si riesce! – con i buoni rapporti con le Istituzioni e le Amministrazioni locali. Siamo come rassegnati a non poter cambiare il mondo, ovvero almeno a contribuire a rimuovere quelle tante e diverse barriere che impediscono la piena partecipazione alla società delle persone con disabilità.

Un modo per superare questa rassegnazione potrebbe essere quello di dedicare energie e risorse, in modo consapevole, alla comunicazione pubblica. Una comunicazione finalizzata non tanto a chiedere, ma ad offrire qualcosa: idee, proposte, segnalazioni, denunce, iniziative finalizzate a dare voce alle persone con disabilità, a promuoverne e tutelare i diritti, ad ogni livello.
Un campo di azione che potrebbe essere anche un nuovo campo “di associazione”, dove aggregare persone con disabilità e altre realtà oggi lontane dal mondo associativo e che potrebbero essere interessate e coinvolte da proposte e azioni di questo tipo.
Ora più che mai, dato che con il web e con i social si sono aperti spazi di vita e di incontro inimmaginabili fino a pochi anni fa.  In questo luogo, solo apparentemente virtuale, abbiamo la possibilità di “unire”, di far dialogare persone che vivono differenti situazioni e condizioni di discriminazione, che nella vita quotidiano farebbero fatica ad incontrarsi. Spazi di comunicazione dove avremmo anche la possibilità di valorizzare quella parte della vita associativa, fatta di impegno e passione dei dirigenti e militanti, che si trova sotto la nostra solita veste istituzionale. Una storia di persone ed eventi che rimane nascosta e che non siamo ancora stati in gradi di raccontare al meglio.
Web e social hanno ampliato la platea delle persone con disabilità, che possono prendere parola e autorappresentarsi: un’opportunità in più per dare vita a nuove modalità “associative”, cioè di aggregazione, relazione e collaborazione e anche di nuove forme di intervento per contrastare l’isolamento delle persone.
«Anche perché nello spazio di internet non circolano certo solo buone notizie e comportamenti illuminati. L’annuale Mappa dell’intolleranza di Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.] ci ricorda ad esempio quanto in rete circolino discorsi d’odio, che prendono spesso di mira le persone con disabilità, soprattutto quando la cronaca porta alla luce situazioni in cui le persone con disabilità, denunciano un abuso e rivendicano un loro diritto.
Ma esiste un’altra questione, più subdola, a cui prestare attenzione: una rappresentazione apparentemente positiva (e in buona fede) della disabilità, che in realtà conferma una visione stereotipata della disabilità e che, proprio per questo motivo, può raccogliere facili consensi: è certamente più facile che abbia successo un messaggio basato sulla pietà, come può essere «non piaccio a nessuno perché sono handicappato: lasciate un ciao per me», piuttosto che uno che punti alla richiesta di rispetto dei diritti umani…

Si apre dunque davanti a noi un mondo di domande, di opportunità e di sfide. Come possiamo parlare in modo convincente delle problematiche sociali (e non solo di quelle individuali), legate alla scuola, al lavoro, all’accessibilità, alla vita indipendente e all’inclusione sociale? Quale linguaggio utilizzare per rappresentare in modo adeguato ed efficace le condizioni di vita delle persone con disabilità? E quale linguaggio dobbiamo adottare per essere capaci di generare dalla nostra comunicazione una possibilità di produrre cambiamenti sociali? È possibile raccontare le “nostre storie” in modo da catturare l’interesse delle persone, anche utilizzando registri diversi da quelli abituali, compreso quello dell’ironia? E ancora, come rappresentare le differenze di approcci, visione, proposte e idee sulla disabilità presenti nella società? Come uscire dal recinto della disabilità, schiacciata nella sua sola dimensione assistenziale? Come dare vita a nuovi spazi di presa di parola, ascolto, rappresentazione e rappresentanza sempre più inclusivi?
Queste sono solo alcune delle considerazioni e delle domande emerse dal percorso formativo denominato I sorrisi non bastano, promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) all’interno del progetto Welfare 4.0Per una definizione di un welfare comunitario di inclusione, e svoltosi dal luglio dello scorso anno a questo mese di febbraio in sei tappe (Perugia, Lamezia Terme, Gorizia, Napoli, Milano e Terni), coinvolgendo 36 relatori e 530 partecipanti.

Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).

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