Seguo da tempo il confronto sui fatti di omicidio-suicidio attuati dai/dalle caregiver a danno di se stessi e della persona con disabilità di cui si curano, ma anche sulle questioni complesse riguardanti il caregiving e i/le caregiver. Non sono finora mai intervenuta pubblicamente, perché le questioni che si pongono sono, appunto, complesse e scrivendone, mettendo in fila i pensieri, spesso si rivivono episodi o situazioni che si vorrebbero piuttosto dimenticare.
Ugualmente sento il bisogno di dare una mia testimonianza, e mi accingo con un senso di profondo rispetto e considerazione verso coloro che si sono già espress* [espressi o espresse, N.d.R.] e per ogni persona che vive delle gravi limitazioni alla propria libertà, sia essa disabile, o caregiver.
Aggiungo che ho trovato particolarmente vicine le posizioni espresse su queste stesse pagine da Silvia Cutrera e Maria Cristina Pesci, nonché a quella di Nadia Muscialini, pubblicata nel sito del Centro Informare un’h, ma ho anche condiviso la maggior parte delle riflessioni di Simona Lancioni, per cui ho dato la mia personale adesione alla proposta di regolamentazione delle comunicazioni pubbliche su queste vicende elaborata per il già citato Centro Informare un’h.
Sono una donna con disabilità, non vedente, vivo una vita indipendente da circa trentadue anni, attraversando tutte le difficoltà e le frustrazioni di una vita con disabilità a Catania, una città difficile e poco disponibile verso i più fragili, sia per ignoranza socio-culturale, sia per incuria istituzionale.
Fino a pochi giorni fa, andando a eseguire una mammografia in compagnia di una giovane del Servizio Civile, ho vissuto quello che definisco “slittamento”. Con questa espressione intendo il fatto che l’operatrice sanitaria si è rivolta subito alla giovane, chiedendole se era una parente allo scopo di farla restare durante l’esame. Io mi sono immediatamente interposta, non senza fastidio, invitandola a rivolgersi direttamente a me, e non alla mia accompagnatrice, dovendo ripeterlo più di una volta. La quale accompagnatrice, giovane e purtroppo non adeguatamente formata, invece di reagire invitando la dottoressa a rivolgersi a me, è rimasta senza parole…
Ho fatto un banale esempio per esprimere una considerazione che maturo da tempo, e cioè che in presenza di una persona con disabilità, se accompagnata o assistita, avviene un immediato “slittamento” da quella persona verso chi accompagna o assiste. Tale “slittamento di considerazione” e, specularmente, la sovrapposizione che molto spesso le/i caregiver o le accompagnatrici o assistenti attuano istintivamente verso le persone che assistono, accade un po’ per gestire velocemente delle situazioni, un po’ perché sono abituate a comportarsi così, un po’ perché anche le persone con disabilità – a seconda delle loro condizioni – richiedono un intervento più consistente alla persona assistente o caregiver che sia.
Credo ci sia un problema culturale che impedisce di considerare le persone con disabilità come portatrici di pari diritti, dignità e opportunità. Sono inoltre convinta che nessuno/a riesca a pensare che la vita di una persona con disabilità possa essere felice o serena e, infine, sono certa che nessuno/a “normodotato/a” desidererebbe in alcun modo trovarsi in condizioni di disabilità. Quando poi si arriva a quelle situazioni dolorosissime, rese estreme anche dalla violenza istituzionale che si esprime in mancanze strutturali di assistenza e progettualità, si assiste talvolta a quel fatale punto di non ritorno in cui si prendono decisioni improvvide nella più totale solitudine.
La solitudine soggettiva e sociale, a mio avviso, è uno degli aspetti più gravi e tragici che concorrono alla realizzazione di gesti estremi. La solitudine attraversa diversamente sia la persona che assiste sia la persona con disabilità. Essa è triste e tremenda, ed è al tempo stesso conseguenza e causa di emarginazione sociale.
Quando lessi di quella giovane cieca che fu uccisa e con inganno dal padre [Si uccide col gas insieme alla figlia disabile, in «ANSA – Lombardia», 20 luglio 2020, N.d.R.], come si può immaginare, ho provato rabbia, tristezza, frustrazione e preoccupazione… una cosa del genere sarebbe potuta accadere anche a me? Forse no, per il semplice fatto che io, appena raggiunta un’indipendenza economica, sono andata a vivere per conto mio, ma in tante occasioni i miei genitori non hanno esitato a sostituirsi a me, e a sovrapporsi, scatenando in me una rabbia e un disturbo che solo i miei appigli spirituali, la loro incapacità di comprendere, e la certezza che avessero agito secondo le loro migliori intenzioni, hanno evitato di farmi decidere di chiudere ogni rapporto con loro. E però io, cecità a parte, sono in buona salute, ho un’indipendenza economica, una rete di relazioni e molti impegni.
Ma che potrebbe esserne della persona con disabilità che si trova in condizioni ben più gravi della mia, e impossibilitata anche solo ad esprimersi chiaramente? Non lo so, e mi fermo davanti a questa complessità.
Nessuno può decidere di sopprimere una persona, nessuno può o potrebbe decidere della vita e di quale qualità di vita [di un’altra persona] sia accettabile, nessuno dovrebbe sovrapporsi o sostituirsi ad un’altra persona, ogni persona con disabilità dovrebbe essere messa in condizioni di poter esprimere la sua idea di vita (e anche di morte), e scegliere di conseguenza in uno Stato che proponga soluzioni differenti e dignitose per tutte e tutti. Resto su questa linea di faglia ritenendo che non ci siano soluzioni univoche. Mi sembra che ci siano delle strade che scorrono parallelamente e che non si possono incrociare.
Stabilire un principio socio-antropologico come, credo, abbia voluto proporre la citata proposta del Centro Informare un’h, e cioè che nessuno possa decidere della vita e della morte di un altro, mi sembra corretto e perfino scontato, soprattutto se pensiamo che il principio di non uccidere è la base del patto sociale in una collettività.
Che anche il linguaggio abbia un forte peso nella rappresentazione e nell’approccio dei fenomeni è altrettanto corretto, e credo siamo tutt* consapevoli di quante discriminazioni in generale siano veicolate da un linguaggio sciatto, scorretto e tendenzioso.
A mio parere quella proposta del Centro Informare un’h apre a una riflessione culturale per un processo di cambiamento che certamente necessita di molto tempo. Intanto restiamo su questa linea di faglia, allargando, per quanto possibile, la nostra comprensione e solidarietà.