Da quando abbiamo iniziato ad occuparci anche su queste pagine degli abusi commessi nell’applicazione dell’amministrazione di sostegno, continuiamo a raccogliere testimonianze terribili. Una figlia, Anna, ci racconta la storia di Dora, la madre, fatta rinchiudere in una Residenza Sanitaria Assistita dal suo amministratore di sostegno con l’inganno, in presenza di una famiglia disponibile ad occuparsi di lei, e di risorse sufficienti a garantirle una permanenza dignitosa in casa propria, come da sua volontà. A breve un’udienza deciderà del suo destino.
Anna abita per lavoro in una città del Nord, mentre Dora abitava in Toscana, nel suo paese di origine, ma gli abusi sono “democraticamente” distribuiti in tutta la penisola. (Simona Lancioni)
Nel giorno della Festa del Papà [il 19 marzo, N.d.R.], decido di scrivere una lettera per parlare di mia mamma, mio padre è lontano nello spazio e anche nel tempo, per sua scelta. Non forma più parte del nostro paesaggio.
In questa domenica di quasi primavera, io, unica figlia di Dora, ho fatto chilometri, attraversato colline e montagne, conosco tutte le curve dell’autostrada che mi porta da lei, per poter stare fisicamente con Dora solo per 30 minuti, durante l’ora concessa alle visite che avvengono in un corridoio, con due sedie, accanto alla sala mortuaria, spesso occupata da anziani passati oltre, e dai loro parenti. Saremmo potute andare a vedere la primavera che sboccia, ma non si può.
A volte, benevolmente, e quando possibile, il personale sanitario permette ad Anna di accedere alla struttura due volte al giorno, ma non sempre accade, e questo dipende dall’affluenza delle visite agli altri pazienti, ancora contingentate per le “norme Covid”.
L’amministratore di sostegno, lo stesso che ha deciso che Dora, «per il suo bene», deve stare chiusa in una RSA [Residenza Sanitaria Assistita, N.d.R.], accudita da sconosciuti, ha anche stabilito che Dora non deve mettere il naso fuori dalla struttura dove vive da oltre un mese. Dora non può uscire accompagnata dai suoi familiari, dai suoi amici e parenti, neanche per prendere un caffè al bar più vicino, nemmeno per vedere i fiori che inondano gli alberi, Dora deve stare al sicuro, chiusa, triste, ma “in sicurezza”. Inoltre i familiari di Dora non sono autorizzati a sapere quali farmaci lei stia assumendo, l’amministratore di sostegno ne ha negato il permesso.
Pensateci bene, chi è autorizzato prendere decisioni arbitrarie, “per il vostro bene”?
Questa è una storia lunga, è una storia dura, complicata, è una “storia sbagliata”, come quella di tanti e tante.
Dora, il cui nome in greco antico significa “doni”, si trova ricoverata, contro la sua volontà, in una struttura definita “casa-famiglia”, ma che in verità è semplicemente un ospizio, un luogo di fine-vita.
Dora è un’anziana non autosufficiente, colpita da ictus ischemico nell’estate del 2022, non potrà più camminare, vive in carrozzina e tra letto e poltrona, può uscire se accompagnata. È un soggetto fragile, non un vuoto a perdere.
Dopo una degenza di circa una settimana in ospedale all’inizio dello scorso mese di febbraio, dove era stata ricoverata per problemi legati all’età e alla sua condizione, i medici le hanno raccontato che la stavano riportando a casa, e quindi, dopo avere ottenuto la sua benevola condiscendenza al trasferimento, hanno predisposto un’ambulanza che dal reparto l’ha trasferita in una struttura, per decisione dell’amministratore di sostegno. Luogo in cui Dora non voleva andare, essendo stato proprio quel posto da sempre il terrore di Dora: la struttura dove la cureranno e forse la tratterranno per sempre, “per il suo bene”. Dora non vuole finire “istituzionalizzata”.
Dora e io abbiamo lottato tanto per non farle terminare i suoi giorni in quel luogo asettico e “sicuro”. Stiamo, di fatto, ancora lottando. Lei per restare lucida e non cedere alla tristezza e al sentimento di abbandono, e io, da fuori, per non essere sopraffatta dal dolore, dalla fatica, dalla legge iniqua che ignora l’Ethos [termine greco il cui significato originario era “il posto da vivere”, che oggi può essere inteso in diversi modi, e, nel caso specifico, è usato per indicare quei valori etici che richiedono rispetto anche al di là delle norme scritte, N.d.R.], in favore del Nomos, della consuetudine della legge scritta dagli uomini. La legge che ignora quella non scritta degli affetti.
La normativa in questione è del 2004, quella che istituisce la figura dell’amministratore di sostegno [la Legge 6/04, N.d.R.], come specificato nell’articolo 404 del Codice Civile: «La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio».
E ancora si legge, nell’articolo 410: «Nello svolgimento dei suoi compiti l’amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario». Quindi l’amministratore di sostegno, dovrebbe sostenere, non affossare il soggetto fragile.
L’amministratore di sostegno di Dora, che ha contatti pressoché nulli con la beneficiaria della sua amministrazione, da un anno ormai tenta di ridurre l’esistenza della stessa a un luogo di fine vita, supportando il proprio operato con le seguenti motivazioni: considerata l’età, si presuppone che col tempo il suo stato di salute si aggraverà, perché Dora presenta un lieve decadimento cognitivo, e vive in casa muovendosi con un sollevatore, con una carrozzina, accudita e nutrita da una badante convivente e da altre figure professionali.
Nel mese di settembre dello scorso anno, in seguito a un’istanza presentata dalla figlia, il Giudice Tutelare, dopo un’udienza nella quale non ha interpellato la beneficiaria, ha emanato un provvedimento per il quale l’amministratore di sostegno avrebbe dovuto reperire un posto in una Residenza Sanitaria Assistita. In seguito, l’amministratore di sostegno, un avvocato nominato dallo stesso Giudice Tutelare, e che amministra anche altri soggetti, ha deciso che Dora andava portata contro la sua volontà in un luogo lontano decine di chilometri dal suo paese di origine, quasi in un’altra Regione, per ragioni di non specificata “urgenza”, pena la sua incolumità.
I medici dell’Ospedale pubblico, dopo avere dichiarato che Dora poteva proseguire le cure presso il proprio domicilio, per timore, hanno collaborato e accettato acriticamente la decisione dell’amministratore di sostegno, il quale però, attenzione, va ben inteso che non è il suo “tutore”. Dora, infatti, non è interdetta, né inabilitata, bensì un mero soggetto fragile, una donna di 80 anni, che nella sua casa di origine ha tutto ciò di cui ha bisogno, ha l’assistenza necessaria, ha i suoi affetti, i suoi gatti, gli oggetti di tutta una vita.
A nulla è valso il tentativo di parlare con l’amministratore di sostegno, di fargli intendere le ragioni che volevano evitare il trauma di una “deportazione coatta”, con la conseguente “caduta” in una grave depressione, che di fatto sta avvenendo in queste settimane, e che la porta a piangere, a rifiutare le terapie e il cibo; a nulla sono valsi gli appelli a una più considerata decisione. Nessuna possibilità di dialogo e confronto, né con i parenti né con la beneficiaria della sua amministrazione, cioè Dora stessa, il soggetto fragile.
Solo il ricorso a un avvocato difensore, della figlia, e non della madre, dato che la stessa ha già chi tuteli i propri interessi – cioè il suddetto amministratore di sostegno – dicevamo, solo la presentazione di un’istanza con carattere di urgenza al Tribunale competente, ha fatto sì che il ricovero venisse finalmente messo in discussione, portando prove inconfutabili di come, una volta dimessa Dora, per ricevere le cure presso il proprio domicilio (così recita la lettera di dimissioni dell’Ospedale pubblico), si potesse appunto attuare un piano di mantenimento e di riabilitazione presso il suo domicilio.
Inoltre, una copiosa mole di relazioni prodotte dall’amministratore di sostegno al Giudice Tutelare, traccia un ritratto decisamente denigratorio, diffamatorio, calunnioso e fuorviante dell’unica figlia, arrivando a chiederne persino l’allontanamento, perché «pericolosa», nociva per la salute della beneficiaria, «manipolatoria nei confronti della madre», insomma, un vero diavolo fatta donna!
La figlia, l’unica figlia, si prende cura di Dora, da vent’anni, sin dai primi segni di cedimento del suo fragile equilibrio, rotto in seguito a una grave depressione, causata dai tradimenti, le botte e dall’abbandono dell’ex-marito. La figlia continua a cercare ragionevolmente e con tutte le cautele del caso, da una parte protezione e sicurezza per il soggetto fragile, e dall’altra di mantenere in vita la parte sana della madre.
Gli atteggiamenti della figlia nei confronti delle arbitrarie decisioni dell’amministratore di sostegno vengono via via definiti «stravaganti», «bizzarre le motivazioni», suffragate da «vaghe affermazioni contro il Sistema».
Perché questo atteggiamento? Dove sono le prove di queste accuse? Chi le ha, le metta sul tavolo, ma se non esistono, che chi di dovere abbia la coscienza di smentirle.
Al momento in cui scrivo, tramite il mio avvocato difensore, ho ottenuto di parlare con il Giudice, durante un’udienza avvenuta per via telematica, circa un mese fa.
Durante tale udienza, durata pochi minuti, dove erano presenti il Giudice Tutelare, l’amministratore di sostegno, la beneficiaria Dora, e io stessa, insieme con il mio avvocato difensore, ognuno nei propri luoghi di lavoro e di degenza, nel caso di Dora, per la prima volta il Giudice ha sentito la viva voce della beneficiaria. Interrogata dal Giudice sul perché non volesse restare nel luogo in cui si trova “temporaneamente”, e chiedendole se la stessero trattando male, Dora risponde: «Non sto volentieri in questo posto, non è il mio posto, mi trattano bene ma non voglio restare qui, voglio andare a casa mia dove ho la badante che mi aiuta».
L’avvocato difensore precisa, durante l’udienza, che la volontà dell’amministrata non è stata rispettata, che la signora Dora non è soggetta a una tutela legale, perché non priva della capacità di intendere e di volere, bensì mero soggetto fragile, quindi amministrata da un amministratore di sostegno che dovrebbe rispettare i suoi desideri e aspettative di vita, e che quindi è al momento soggetta a un ricovero coatto; che la signora ha presso il proprio domicilio tutte le figure necessarie e i dispositivi necessari alla sua cura; che anche grazie alla somma che l’amministratore di sostegno invia mensilmente alla figlia, ma non solo, anche con risorse proprie, si assicura a Dora tutto ciò di cui ha bisogno.
Per tutto il tempo dell’udienza, avvenuta in collegamento e non di persona, si sente la voce di Dora che chiede ripetutamente di poter tornare a casa. Il Giudice conclude dicendo che oltre alla volontà manifesta di Dora, bisogna acquisire ulteriore documentazione medica aggiornata, e che il problema economico di dover sopperire a tutte le spese derivanti da un’assistenza domiciliare sussiste. Nessuno, ad oggi, si prende la responsabilità di decidere il luogo di vita di Dora. Si rimanda la decisione a un parere più autorevole, e intanto passano i giorni, le settimane, i mesi, e Dora peggiora.
Dora però non è indigente, ha due case di proprietà, la prima dove vive, la seconda affittata regolarmente a una famiglia, ha due fondi ufficio affittati regolarmente a un ente di patronato. Ha una pensione derivante da contributi INPS, ed è titolare di una pensione di accompagnamento. Ha una figlia, che finora non si è mai sottratta all’impegno di accudirla e di supportarla, anche economicamente.
Dora non è sola, ha amici, parenti, conoscenti, figure professionali che quotidianamente la curano, la badano, la coccolano, le allietano le giornate.
In questo momento Dora e la figlia attendono l’udienza che si celebrerà tra pochi giorni, quando il Giudice, per via telematica, dovrà esprimere la propria decisione, alla luce delle considerazioni che i medici dell’Ospedale, gli assistenti sociali del Comune di riferimento, il medico di famiglia, avranno fatto pervenire al Tribunale.
Il neurologo, che segue Dora da più di un anno, produrrà anch’egli la sua relazione, dopo averla visitata presso la struttura, dato che il medico di famiglia si rifiuta di farlo, perché la stessa si trova in un luogo troppo lontano dal suo studio medico. L’opinione del neurologo è che benché affetta da lieve decadimento cognitivo, il ricovero coatto sia stato deciso in modo arbitrario, e che non abbia fatto che aggravarne il fragile equilibrio psicofisico.
Il fattore emotivo conta molto, nei soggetti con decadimento cognitivo e affetti da depressione, e se c’è una famiglia che vuole farsi carico del soggetto fragile, se ci sono persone competenti che possono occuparsene a domicilio, perché ricorrere a una Residenza Sanitaria Assistita lontana decine di chilometri dal proprio luogo di origine?
I medici dell’Ospedale, chiamati ad esprimersi su un eventuale rientro di Dora presso il proprio domicilio, dichiarano: «il rientro a domicilio, per un degente, è sempre auspicabile, in quanto si riappropria del proprio ambiente e dei propri affetti. Nel caso specifico, il personale medico ospedaliero non è in grado di valutare l’adeguatezza dell’ambiente domestico e soprattutto l’effettiva presenza di un caregiver stabile che si prenda cura di una persona non completamente autonoma. Tale valutazione sarà appropriatamente effettuata dall’amministratore di sostegno già nominato e dai servizi socio-sanitari cui il caso è noto».
La voce di Dora non è rimasta inascoltata, per ora, ma cosa accadrà alla prossima udienza? Quali scenari si prospettano? Il Palazzo di Giustizia terrà conto delle aspettative di vita e dei desideri di Dora? L’amministratore di sostegno cambierà il suo atteggiamento in favore di una collaborazione più concreta con Dora e i suoi familiari, diversamente da quanto è avvenuto negli ultimi mesi?
Una certezza inquietante aleggia però su questa vicenda: chiunque, in condizione di fragilità, può essere amministrato da un “potere muscolare” che con la sola motivazione di fare tutto “per il suo bene”, può decidere di scardinare il diritto della persona a decidere il proprio luogo di vita, di cura, può dividere famiglie, può vietare uscite all’aria aperta, può negare l’accesso alle informazioni sulle terapie somministrate alla paziente in una struttura di ricovero.
Di fatto i familiari possono venire estromessi da qualcuno che guarda ai pro e ai contro di una lungodegenza, tenendo conto di un fattore economico di utilità, in una situazione dove si è lontani, comunque dall’indigenza.
Vogliamo immaginare questo futuro distopico e dispotico o vogliamo ingaggiarci in prima persona per cambiare qualcosa? L’istituzionalizzazione del fine vita è l’alternativa alla famiglia che si disgrega e che si impoverisce? Riflettiamo insieme, forse siamo ancora in tempo per ridisegnare la centralità della persona, dei suoi diritti, della sua fragilità.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità [all’articolo 10, N.d.R.] recita: «Gli Stati Parti riaffermano che il diritto alla vita è connaturato alla persona umana ed adottano tutte le misure necessarie a garantire l’effettivo godimento di tale diritto da parte delle persone con disabilità». Tale diritto deve essere difeso in ogni istante della vita, dal concepimento alla morte naturale, proprio perché la disabilità è un’esperienza umana in molti casi ancora misteriosa, che siamo chiamati a rispettare e a conoscere.
Il concetto di disabilità non indica più un assoluto della persona, come in passato, ma riguarda il rapporto tra la persona e il suo ambiente di riferimento.
Lo Stato Italiano ha recepito e ratificato la Convenzione nel 2009 (con la Legge 18/09) ed essa è dunque, a tutti gli effetti, una nostra Legge. Si legge ancora all’articolo 1: «Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità, Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
Dora può ancora contribuire a questa società, non lasciamola indietro, non lasciamola reclusa, lasciamo che si ricongiunga alla sua famiglia. Le persone con demenza, come ha detto qualcuno, possono darci tanto, è triste invecchiare, è ancora più triste invecchiare soli, credendo che la tua famiglia ti abbia abbandonato in un luogo dove le persone accanto a te muoiono ogni giorno, senza sapere più chi sono, dove sono, cosa erano.
Le persone fragili sono un dono, perché prendersene cura ci ricorda quanto siamo fragili noi stessi, quanta forza ci vuole per resistere a questa vita che ci mette a dura prova.
Dora è un dono, come il suo nome ci ricorda.
Il presente contributo, così come l’immagine qui pubblicata, è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.