Il 3 dicembre in Italia è una giornata particolare. Infatti l’ONU ha stabilito che in questa data si celebri la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, ma per come viene affrontata nel Bel Paese si direbbe si tratti della “giornata internazionale dei caregiver” delle persone con disabilità. La confusione ha origine dal fatto che due temi completamente diversi sono spesso trattati nella stessa ricorrenza. Un tema è quello del riconoscimento della figura del caregiver familiare della persona con disabilità, l’altro è quello della Vita Indipendente. Vediamo di che si tratta.
La caregiver familiare, perché si tratta spesso di una donna, è una persona non disabile che ha un rapporto di parentela con una persona con disabilità e convive con la stessa. Può trattarsi di un genitore, un fratello o una sorella, un marito, una moglie o qualche altro parente. Questa figura fornisce alla persona con disabilità assistenza nelle attività della vita quotidiana quali: lavarsi, vestirsi, aiuto negli spostamenti (per esempio, con un sollevatore, oppure per andare a scuola o a lavoro), o nel gestire le proprie finanze. Il tipo di supporto fornito dalla caregiver familiare varia a seconda delle necessità del familiare con disabilità, ma egli o ella non riceve alcun compenso per queste prestazioni.
Il Movimento per la Vita Indipendente è nato a Berkeley, in California, tra gli Anni Sessanta e gli Anni Settanta, per poi diffondersi in tutto il mondo. Il principio di base pone al centro il diritto delle persone con disabilità alla propria autodeterminazione, che è sancito dall’articolo 19 della Convenzione ONU dei Diritti della Persone con Disabilità. La figura dell’assistente personale è fondamentale per garantire tale diritto. L’assistente personale è assunto (o assunta) con regolare contratto dalla persona con disabilità o, in certi casi, da chi la rappresenta, per fornirle supporto nelle attività della vita quotidiana in cui necessita di assistenza. L’assistente personale, quindi, riceve una compensazione monetaria per il lavoro che svolge. L’accesso ai fondi pubblici per la Vita Indipendente consente alle persone con disabilità, laddove i fondi siano sufficienti, di scegliere dove, come e con chi vivere, liberandole dalla schiavitù familiare e svincolando eventuali familiari da qualsivoglia obbligo di assistenza.
La Vita Indipendente non è, né può essere un obbligo. Al contrario, ogni persona con disabilità dovrebbe essere libera di scegliere tra la figura del caregiver familiare e l’assistenza personale autogestita (o di combinare questi due tipi di assistenza tra loro e/o con altre forme di supporto, a seconda delle sue necessità). È importante sottolineare, tuttavia, che soprattutto l’assistenza personale autogestita consente alle persone con disabilità di maturare, diventando persone adulte realmente indipendenti dalla famiglia. Infatti, i caregiver familiari sono completamente abbandonati a se stessi e potrebbero essere vittime di pregiudizi e stereotipi sulla disabilità, comportamenti impliciti o espliciti ancora radicati nella collettività. Pertanto, in alcuni casi, la segregazione delle persone con disabilità inizia in famiglia. Questo avviene nelle circostanze in cui i caregiver familiari sono convinti, per esempio, che la persona con disabilità che assistono non sia in grado di autodeterminarsi e/o sia “troppo grave” per essere inclusa nella società. Inoltre, affidarsi esclusivamente al supporto di caregiver familiari pone le persone con disabilità in una situazione di estrema vulnerabilità. Infatti, se il caregiver familiare di una persona con disabilità è costretto a fornire assistenza continua senza poter riposare o si ammala, questa potrebbe trovarsi costretta a lasciare la propria abitazione ed essere trasferita in una RSD [Residenza Sanitaria per Persone con Disabilità, N.d.R.] contro la sua volontà.
Il problema è che i fondi per la Vita Indipendente sono spesso insufficienti, e in alcune Regioni addirittura inesistenti. Inoltre, spesso vengono concessi solo a persone con disabilità che abbiano raggiunto la maggiore età. Questo costringe le persone con disabilità minorenni ad affidarsi al supporto di caregiver familiari, che sono a loro volta obbligati a fornire assistenza gratuitamente.
Tuttavia, il fatto che l’assistenza del caregiver familiare non sia riconosciuta in termini monetari non significa che essa non abbia un costo per la persona con disabilità che la riceve. Si pensi, ad esempio, ad un’adolescente con disabilità che vive in famiglia ed è assistita dai genitori. La chiameremo Ada. Ada ha 16 anni, e ha bisogno dell’assistenza dei genitori per alzarsi, lavarsi, vestirsi e andare in giro. Cosa succede se Ada vuole fare sesso? E se vuole prendersi la prima sbronza? Peggio ancora, cosa succede se Ada, in un momento di ribellione, litiga con la madre? Non solo non potrà andarsene di casa, come fanno tante adolescenti senza disabilità, ma la madre, in casi limite di conflittualità o stress emotivo, potrebbe rifiutarsi di lavarle i capelli, o di aiutarla ad andare in bagno.
Questi atteggiamenti, per quanto estremi, sono in realtà più frequenti di quanto si possa immaginare.
Essere una persona con disabilità significa pagare il supporto di eventuali caregiver familiari con la rinuncia ad essere autenticamente se stessi, perché per le proprie necessità si dipende dalla buona volontà altrui. Essere caregiver di una persona con disabilità significa ritrovarsi da sola su un piedistallo con su scritto “super mamma” o “eroina”, senza nessun tipo di supporto né dallo Stato, né dalla società in generale. L’isolamento sociale e la fatica fisica associati all’assistenza di un familiare con disabilità ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette, sottopongono i caregiver familiari ad una pressione psicofisica enorme, che può addirittura sfociare in un burnout [termine inglese che designa una sindrome derivante da uno stress cronico associato al contesto lavorativo che la persona non riesce a gestire, N.d.R.]. Di conseguenza, in assenza di sostegno da parte dello Stato e delle Istituzioni, alcuni caregiver familiari potrebbero riversare inconsapevolmente la propria disperazione sulla persona con disabilità che assistono. Se questo avviene, la giustificata frustrazione del caregiver di una persona con disabilità può tradursi in comportamenti ingiustificabili quali abusi, maltrattamenti o negligenza nei confronti del familiare con disabilità.
Purtroppo, del tema degli abusi subiti dalle persone con disabilità da parte dei loro caregiver non si parla finché non è troppo tardi. I fatti di cronaca evidenziano ripetutamente casi di omicidio e suicidio di persone con disabilità in famiglia. Da un tentativo di rilevazione delle vicende in questione, risulta che dal 2011 ad oggi, in Italia, ci sono stati 50 casi di omicidio (tentati o riusciti) di persone con disabilitù da parte dei propri caregivers familiari [si veda, a tal proposito, a questo approfondimento, N.d.R.].
È importante, però, sottolineare che la stragrande maggioranza dei caregiver familiari amano i propri familiari con disabilità, e si battono ogni giorno al loro fianco per garantire loro una vita dignitosa. Pertanto non si tratta di colpevolizzare i caregiver familiari di persone con disabilità come “categoria”, ma di vederli come esseri umani ordinari che hanno bisogno sia di riconoscimento giuridico, sia di supporto da parte delle Istituzioni. La narrazione secondo cui i caregiver familiari sarebbero “eroi” viene strumentalizzata per scaricare su di essi la responsabilità dell’assistenza ai congiunti con disabilità. Condizione che in molti casi costringe un membro non disabile della famiglia (spesso una donna) a rinunciare al lavoro remunerato per assistere il familiare con disabilità, impoverendo l’intero nucleo familiare e alienando sé stessa.
Da tutte queste considerazioni è nata l’idea di un questionario anonimo che raccolga le testimonianze di abusi, maltrattamenti e negligenza nei confronti di persone con disabilità da parte dei propri familiari. Occorre rompere il silenzio su questo tema, poiché attinente al benessere delle persone con disabilità. In quanto tali, abbiamo diritto non solo di sopravvivere, ma di avere una vita in cui sentirci al sicuro, che sia dignitosa, e da vivere appieno. Perché nella vita delle persone con disabilità, come in quella delle persone senza disabilità, c’è il dolore, ma c’è anche la gioia.
Ho condiviso la mia idea in merito ad una raccolta di testimonianze sul tema degli abusi da parte di caregiver familiari su un gruppo Facebook chiamato Tè, Biscotti e Abilismo [promosso da Witty Wheels di Elena e Maria Chiara Paolini, due attiviste con disabilità, N.d.R.]. L’idea ha riscosso molto successo, ed Elena Wenk ha deciso di collaborare con me al progetto [se ne legga nel box in calce, N.d.R.]. I risultati della prima raccolta di testimonianze anonime sono consultabili a questo link.
Dopo esserci consultate con altre persone con disabilità, Elena Wenk ed io abbiamo deciso di avviare una nuova raccolta di testimonianze anonime sul tema di abusi e maltrattamenti verso persone con disabilità da parte dei/delle caregiver. Prima della pubblicazione ufficiale del questionario, lo stesso è stato sottoposto ad un collettivo di persone con disabilità (tra cui Ginevra Caterino, che ha dato un importante contributo nella formulazione delle domande sugli abusi e i maltrattamenti).
Pertanto, chi volesse offrire la propria testimonianza anonima, può farlo compilando il questionario disponibile a questo link.
Contribuire a far emergere un fenomeno sottovalutato
Mi sono proposta di aiutare Asya Bellia a creare un questionario sugli abusi da parte dei caregiver familiari perché penso che questo sia un tema molto sottovalutato e sia importantissimo parlarne.
Queste violenze, purtroppo, sono troppo spesso sommerse a causa del fatto che la persona con disabilità, il più delle volte, dipende per la sua sopravvivenza fisica dall’abusante e non ha i mezzi per rendersi indipendente, allontanarsi e denunciare. Inoltre penso che i casi più gravi di violenza attuati dai caregiver, quali gli omicidi, siano solo la punta dell’iceberg di tutti questi abusi sommersi perpetrati nel tempo.
Ritengo che una grossa responsabilità di questi crimini l’abbiano i servizi sociali e gli organi legislativi che non garantiscono il diritto alla Vita Indipendente per tutte le persone con disabilità, stanziando i finanziamenti adeguati. Purtroppo la disciplina sulla Vita Indipendente non è uguale in tutte le Regioni e ci sono quindi molte differenze tra una persona con disabilità che è residente in Sicilia, piuttosto che una residente in Piemonte o in un’altra Regione. Ad esempio, a differenza della Toscana (dove vive Asya Bellia), conosco molte persone già maggiorenni, residenti in Lombardia, che hanno bisogno di assistenza ventiquattr’ore su ventiquattro e vorrebbero poter accedere ai finanziamenti per un progetto di Vita Indipendente, ma non viene loro riconosciuto questo diritto solo perché vivono con i genitori, magari anche anziani. Questi casi espongono la persona con disabilità ad un rischio molto elevato di subire violenza, perché un genitore non ha più né le forze, né le capacità mentali di occuparsi di un figlio con disabilità, e un figlio, seppure con disabilità, avrebbe diritto di slegarsi dai genitori e farsi la propria vita come tutti. (Elena Wenk)