«La preside fece di tutto per farmi partecipare all’esame, ma sino ad allora nessun esame scritto era mai stato fatto a domicilio»: sono parole mie, tratte dal libro Identità e memoria di una scuola – Il Paolo Frisi a Milano, volume che celebra i sessant’anni dell’istituto il quale, fra l’altro, è stato punto di riferimento nella storia dell’inclusione scolastica. Lo è ancora e, in occasione della festa per celebrare la pubblicazione del testo, ritorno sul mio esame di maturità. La concomitanza con le nuove disposizioni sull’esame, raccontate qualche giorno fa da Anna Maria Gioria su queste stesse pagine, porta a una storica disamina delle memorie di quasi trent’anni fa.
Il mio esame di maturità vecchio stampo, quello che ancora si attribuiva in sessantesimi, risale al 1996. Le leggi sull’integrazione scolastica in Italia si fanno risalire a quella che ha abbattuto le classi differenziali, la 517 del 1977, istituendo l’insegnante di sostegno. L’elemento di raccordo che consentiva agli allievi fino ad allora indicati come “disadattati scolastici” di studiare con gli altri. Ma già le classi differenziali non erano il male assoluto, viste con gli occhi del tempo, perché rappresentavano un tentativo di portare nelle scuole persone che altrimenti sarebbero state escluse. Le classi, che poi debordarono nel creare ghetti, potevano avere un calendario speciale, appositi programmi e orari di insegnamento. Così all’articolo 12 della Legge 1859 del 1962.
Ogni tempo ha la sua cultura, e in quel 1996 sono stato protagonista di un evento sino ad allora unico, l’esame scritto di maturità a domicilio, reso possibile da una scuola che era riferimento per gli studenti con disabilità del Milanese: niente barriere architettoniche e insegnanti competenti, aperti, dediti alla causa dell’insegnamento e specialmente capaci di cogliere le nuove istanze dell’integrazione scolastica introdotte dalla Legge 104 del 1992. Gran merito per l’esercizio al diritto allo studio in quella scuola va all’allora preside Iris Tarter. L’istituto era un professionale di Quarto Oggiaro. In capo al mondo per me che abitavo dall’altra parte della città.
Studiavo come all’università: frequentavo alcuni giorni alla settimana, mi preparavo da casa e affrontavo i compiti in classe come tutti. Ero circondato da una discreta quantità di persone con disabilità, che circolavano fra i corridoi senza destare stupore. Eravamo una minoranza, perché le persone con disabilità sono tendenzialmente una minoranza, ma una minoranza felicemente invisibile: avvolti non da quella invisibilità abilista che coincide con il disinteresse, ma da quella invisibilità inclusiva che ti rende parte del tutto alla pari senza che questo desti clamore.
Un elogio ai ragazzi senza disabilità che frequentavano la scuola. Non ho mai capito se per predisposizione personale o contagio didattico, praticavano l’inclusione spontaneamente. La diversità era cosa consueta. Eravamo tutti un po’ diversi. Forse perché eravamo in una zona di periferia, là dove i margini si stemperano nella comune appartenenza al mondo del pregiudizio.
Ma torniamo alla citata Legge 1859 del ’62, quella che aveva introdotto le classi differenziali. Già parlava di flessibilità. Ecco, il concetto di flessibilità è stato quello che ha reso il mio studiare fattibile, perché se avessi dovuto seguire un programma rigido, improntato sulla ferrea applicazione delle norme destinate agli alunni senza disabilità non ce l’avrei mai fatta. Non è questione di agevolazione, ma di accesso al diritto mediante il percorso appropriato. Quello previsto dalle norme sull’inclusione scolastica.
L’esame del ’96, come riportato dal giornale «Pragma», si avvaleva di un percorso svolto negli anni e che evidenzia il dialogo fra le parti. Dopo avere frequentato per anni, proprio in prossimità dell’esame non potevo recarmi in istituto per l’Esame di Stato. La preside fece di tutto per convincere il Ministero a permettermi l’esame a domicilio. Era il bello della disponibilità e del dialogo.
La scuola mi veniva incontro, ascoltando le mie esigenze, e io andavo incontro alla scuola, mettendomi a disposizione per ogni tipo di aggiustamento del percorso educativo. Così facendo si creò anche un rapporto di amicizia.
Amicizia ritrovata qualche giorno fa, presso Villa Scheibler, nelle vicinanze della sede centrale dell’Istituto Paolo Frisi, ove abbiamo presentato il libro in un clima istituzionale, ma anche di festa. Un libro nato dall’idea del preside Luca Azzollini, in collaborazione con i docenti Matteo Chiarelli e Silvia Prati. Al Frisi la tradizione inclusiva continua, sempre per merito dei presidi che si sono succeduti, fino a quello attuale.
Ora si fanno molte più cose dei miei tempi e l’inclusione ha modo di espandersi. Tant’è vero che se allora si parlava di integrazione, perché le leggi e la cultura pensavano a portare le persone con disabilità in un ambiente, ora si parla di inclusione, perché si fa riferimento alla piena partecipazione. E non solo delle persone con disabilità.
La festa, il libro, la preside Tarter che mi volle con lei a Roma nel 1995 per ritirare una menzione al prestigiosissimo Premio Bellonci al Quirinale con il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il nuovo preside e via dicendo. Quanti ricordi e quante nuove conoscenze!
E quell’insegnante di sostegno, professoressa Grazia Biscotti, che batteva al computer le mie prove scritte durante l’esame di maturità a casa, come dimenticare? Merito di buone leggi e soprattutto di buone persone.
Ho vissuto la storia dell’inclusione scolastica. Per certi versi l’ho un pochino fatta, cioè l’abbiamo fatta. Perché l’inclusione da soli non si può fare.
Direttore responsabile di «Superando.it». Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Migliora l’esame di maturità, ma l’esame scritto a casa resta un mio primato all’Istituto Paolo Frisi”) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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