Se provassimo a raccontare la storia della faticosa ricerca che le persone con disabilità hanno attuato negli anni per raggiungere una piena e solida esigibilità dei loro diritti sociali, ci accorgeremmo come quella storia si sia dispiegata attraverso molte e diverse lotte, rivendicazioni e ricerche, per raggiungere, innanzitutto, veri cambiamenti culturali e percettivi sul loro status e, contemporaneamente, per ottenere un adeguato, progressivo sostegno medico/psicologico e terapeutico. Ovviamente, per avere un punto fermo e di non ritorno per ogni conquista e per ogni affermazione di eguaglianza e di diritti, come per tutti i cittadini, è stato necessario lottare per ottenere buone ed efficaci leggi, anche se a volte, a mio parere, si sia sopravvalutato il fatto che bastino leggi o richieste di nuove leggi per far sì che i diritti restino comunque esigibili e tutelati.
Certo, le leggi sono fondamentali, ma se poi non si traducono in un progetto strutturale e operativo di welfare di prossimità territoriale, sostenuto da una vision chiara e condivisa dei decisori pubblici, delle famiglie professionali, degli Enti di Terzo Settore e delle Associazioni (tutori e veri portatori d’interesse delle persone con disabilità), facendo attenzione massima alle finalità, alla disponibilità di una governance competente e trasparente, alla certezza della risorse necessarie realmente disponibili… Ebbene, succede che, di ripiego, ci si accontenti di un’ulteriore, invasiva valanga di leggi, norme, tavoli di lavoro, programmi con passettini parziali di attività, proclami altisonanti e vuoti, per far credere che sia stia muovendo qualcosa, ci si stia organizzando, si stia provvedendo… Ma in realtà nessun vero progresso porterà concreti sostegni per una buona qualità di vita.
In un’intervista al giornale «Avvenire» la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli ha dichiarato che ormai è «in arrivo una rivoluzione sulla disabilità». Il riferimento è certamente ai cinque Decreti Attuativi della Legge 227/21 e poi a un Testo Unico per integrare tutte le normative!
È noto a tutti che la Legge 227, Delega al Governo in materia di disabilità è stata approvata il 22 dicembre 2021, è inserita nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Missione 5, Componente 2) e viene descritta come una «riforma finalizzata all’adozione di una disciplina organica (“Codice”) sulla disabilità, volta a ridisegnare la tutela della disabilità nei diversi ambiti e, allo stesso tempo, a prevedere processi più efficienti di erogazione degli interventi e dei servizi” e potenziare i sostegni e le opportunità di realizzazione di progetti di vita personalizzati.
Il Ministero, in realtà ha operato un diverso approccio, adottando l’iter di una Legge Delega, escludendo l’immediata adozione di una Legge Quadro unificante ed esplicitamente centrata sulla piena realizzazione dei princìpi della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Quella scelta ha portato, a mio avviso, ad adottare una sequenza di Decreti Attuativi, dilatando i tempi ed esponendo i Decreti stessi a possibili diversificate interpretazioni, con diseguali tempi applicativi, a seconda delle diverse sensibilità regionali, e con atti semplificati o complicati iter di accesso e di fruizione. Tutte complicazioni che renderanno difficile una piena attuazione di quanto richiesto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, vale a dire: «L’obiettivo principale della riforma è quello di modificare la legislazione sulle disabilità e promuovere la deistituzionalizzazione e l’autonomia delle persone con disabilità, il rafforzamento e qualificazione dell’offerta di servizi sociali da parte degli Ambiti territoriali, la semplificazione dell’accesso ai servizi sociosanitari, la revisione delle procedure per l’accertamento delle disabilità, la promozione dei progetti di vita indipendente, la promozione delle unità di valutazione multidimensionale sui territori, in grado di definire progetti individuali e personalizzati ex art. 14 Legge n. 328/00 e legge 112/2016, anche attraverso l’implementazione territoriale dei Punti Unici di Accesso per le persone con Disabilità (PUA) quali strumenti per la valutazione multidimensionale».
In attesa dunque del Testo Unico (meglio tardi che mai!), che almeno inizialmente ci semplifichi un po’ la vita, mi preme ancora sottolineare, come già accennato, un’importante riserva sull’efficacia operativa di tali disposizioni normative, qualora contemporaneamente non si metta mano all’ormai storica carenza di servizi territoriali, che arrancano nel poter realizzare la loro missione di affiancare e accompagnare con competenza professionale le persone nell’esigibilità dei loro diritti sociali.
Serve con urgenza una coraggiosa riorganizzazione del welfare territoriale che da frammentato (per norme e logiche operative e soprattutto per sistemi separati come il sanitario e il sociale), diventi finalmente un sistema integrato e condiviso di servizi: sanitari, sociosanitari e sociali, per garantire alle persone che fanno fatica a tenere il passo l’esigibilità di quei diritti sociali ascritti nella nostra Costituzione, sempre puntualmente enumerati e proclamati in convegni, riviste e studi e, purtroppo, ancora difficilmente esigibili.
Credo, quindi, che sia giunto il tempo di aprire un vero e spassionato approfondimento.
Domanda: l’esigibilità dei diritti delle persone con disabilità oltre che di una rapida revisione e semplificazione di leggi e norme, ha forse l’urgente necessità di poter disporre di un ancoraggio solido su un welfare territoriale con salda guida pubblica, essere efficace, avere un proprio standard strutturale ed organizzativo, un adeguato numero diversificato di professionisti, un welfare, quindi, coerente, per affrontare le reali situazioni dei singoli territori e, in particolare, un vero, competente ed efficace accompagnatore esistenziale delle persone con disabilità?
A mio avviso, stante lo stato attuale dei diversi welfare territoriali, credo che sia alquanto problematico poter dare una risposta affermativa a tale domanda. I nostri welfare territoriali stanno diventando sempre più poveri e improduttivi, benché, con un po’ di ipocrisia, si continui a credere e proclamare, con retorica solennità, il contrario. Quindi, per non apparire ingenuo e irrispettoso verso una Ministra che si appresta ad attuare una “rivoluzione sulla disabilità”, vorrei portare l’attenzione su un tema fondamentale: verso dove si sta dirigendo il nostro welfare territoriale?
A questo punto è bene ancora una volta ricordare che non stiamo parlando di accessori esistenziali facoltativi: stiamo parlando del diritto alla salute, all’istruzione, alla formazione e lavoro, all’inclusione sociale attiva. In una parola stiamo parlando di quei diritti che costituiscono il bene/essere delle persone secondo quel mandato costituzionale che ogni welfare territoriale dovrebbe assolvere e che impone il dovere di essere un accompagnamento competente per le persone con disabilità, attraverso la realizzazione di ognuno di loro di un progetto di vita personalizzato e partecipato…
Come tutti ormai sappiamo, il nostro welfare si presenta con molteplici facce, molteplici approcci e molteplici attuazioni regionali. Perde sempre più la sua sostanziale caratteristica di universalità, e soprattutto non riesce più ad essere coerente con la propria mission e dovere costituzionale che impone a tutti – in primis alle Istituzioni e ai dipendenti pubblici – di rimuovere gli ostacoli di ogni ordine in favore del pieno sviluppo della persona umana (articolo 3, comma 2 della Costituzione).
Le diverse oscillazioni rappresentative raccontano la prevalenza di modelli parziali e differenziati e diverse risposte disponibili per ogni singolo territorio. C’è un welfare riparatorio, che si muove solo a domanda del cittadino e spesso dando risposte pre/confezionate (sulle quali la persona deve poi trovare il migliore adattamento, quasi mai non del tutto personalizzabile). Oppure c’è il welfare condizionato (oggi alquanto prevalente), che riversa su cittadini e comunità sociali quantità di bonus economici (vedi la Legge di Bilancio per il 2023), che però sono vincolati e condizionati da complicati calcoli dell’ISEE e/o da precise condizioni per poter accedere a quei bonus o a più complessi aiuti e benefici (ad esempio: lavoro, reddito di cittadinanza, casa…). Se quelle precise condizioni non sono raggiunte, scatta l’esclusione, senza tenere conto che spesso l’impossibilità di superare certe condizioni non risiede nelle capacità della persona richiedente, bensì in oggettive disfunzioni strutturali della Cosa pubblica o su fattori negativi sociali che rendono molto difficile, e a volte impossibile, superare disfunzioni personali per il raggiungimento di quei benefìci. Potrebbe essere questo un discutibile approccio usato dalle Istituzioni per non sentirsi responsabili di non avere attuato quei cambiamenti strutturali e operativi che avrebbero facilitato un corretto accesso ai diversi benefìci? È probabile!
Infine c’è un’altra tipologia che chiamerei welfare caritatevole. Un particolare fenomeno che personalmente mi suscita forti perplessità. Con efficaci spot televisivi si continuano a sollecitare i cittadini e le cittadine a fare donazioni di alcuni euro al mese verso destinatari che di volta in volta sono Centri di riabilitazione, Istituti di ricerca su malattie genetiche, Associazioni di volontariato di assistenza a persone povere, a persone senza dimora… Quale senso dare a questa insistente pubblicità televisiva che spesso cerca di suscitare forti emotività, presentando anche immagini di bambini con disabilità? Significa forse che lo Stato si stia ritirando dall’affrontare questi importanti settori e che quindi occorra chiedere soldi ai cittadini, magari facendo leva o sulla laica solidarietà o sulla religiosità delle persone?
Su tutto questo lascio a ognuno la propria personale valutazione e giudizio.
E veniamo al nostro sistema sanitario. Speravamo che fosse arrivata finalmente la buona stagione per una definitiva svolta nell’affrontare quell’intreccio di difficoltà e sofferenze dalle molte facce dei nostri servizi sanitari (in particolare di quelli territoriali) e che sono state ben evidenziate dalle dolorose vicende del Covid! Speravamo, quindi, in una risalita della fiducia dei cittadini verso il nostro sistema sanitario pubblico che finora si è visto defraudare di ben 35 miliardi annui a favore della sanità privata (che, oltre tutto, non intende impegnarsi in servizi territoriali, ritenuti non remunerativi!). Ma è del tutto enormemente triste vedere che questo sistema pubblico non si preoccupi affatto di quei tantissimi cittadini che purtroppo hanno rinunciato a curarsi o perché non riescono ad accedere al servizio sanitario pubblico (lunghissime liste d’attesa, luoghi di cura irraggiungibili…) o perché, mancando di risorse personali, non possono accedere neanche al sistema privato.
Con serietà e con diverse preoccupazioni occorre domandarsi: che cosa sta succedendo al nostro Sistema Sanitario pubblico? Anche qui si parla molto di diverse scelte. Si parla di welfare aziendale, di welfare assicurativo o, più genericamente, di Secondo Pilastro per i servizi sanitari. In proposito riporto, condividendo, quanto affermato da Marco Geddes nell’articolo Tutti pazzi per il Secondo Pilastro, pubblicato il 6 dicembre 2017 da «Salute Internazionale»: «C’è una straordinaria e inedita convergenza d’interesse sul Secondo Pilastro di finanziamento dei servizi sanitari, basato su assicurazioni private e varie forme di welfare aziendale. Ma questo Secondo Pilastro è veramente integrativo? È forse orientato sull’assistenza domiciliare, su cronicità e non autosufficienza, su attività di assistenza sociosanitaria con valenza territoriale? Non sembra. Una semplice lettura delle proposte assicurative e dei piani previsti nei diversi Fondi sanitari ci indica tutt’altro: un insieme di prestazioni, talora offerte con modalità inappropriate, largamente duplicative di quelle presenti nel Servizio Sanitario Nazionale».
Il problema è che per inefficienza o per scelte politiche miopi e/o sbagliate non si riesce a contrastare la vera fonte di molti malesseri, vale a dire il contenitore sociale della nostra vita quotidiana dove giocano impedimenti e facilitatori per mantenere o riconquistare un ragionevole bene-essere personale e comunitario.
Credo che se non vogliamo perdere un essenziale bene sociale – quale è il nostro Servizio Sanitario – sia importante ricordare, con una visione storica ed evolutiva, come una delle più importanti conquiste nell’Italia del dopoguerra sia stata certamente l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Un ottimo sistema sanitario unitario, dettato dalla Legge 833 del 1978, in cui venivano riconosciute ai Comuni unitariamente «le funzioni amministrative in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera», con l’istituzione delle Unità Sanitarie Locali. Ma poi è bastato un decennio con realizzazioni di eccellenza e diverse inefficienze per assecondare richieste di cambiamento, dovute a forti preoccupazioni economiche per una spesa pubblica divenuta incontrollabile e che quindi bisognasse tenere sotto controllo e forse ridurre. Con tre successive decisioni legislative (Decreti Legislativi 502/92, 517/93 e 229/99), l’unitarietà del Servizio Sanitario viene trasformata in venti Sistemi Sanitari Regionali, estromettendo totalmente i Comuni e trasformando le USL e gli ospedali in aziende a totale dipendenza delle Amministrazioni Regionali. Un cambiamento che ha prodotto non solo la rottura dell’unitaria governace dei servizi sociali e dei servizi sanitari, ma soprattutto la netta separazione tra tutto ciò che si considera (a volte arbitrariamente!) sociale (da lasciare agli Enti Locali) e tutto ciò che si considera sanitario (a governo regionale), da ogni punto di vista: culturale, scientifico e soprattutto finanziario, dando vita a diversissimi sistemi regionali, spesso fortemente lontani dal dettato costituzionale, tant’è che per salvare almeno alcuni servizi essenziali che il Servizio Sanitario dovrà garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dalla regione di appartenenza, si sono dovuti inventare i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), con il Decreto del Presidente del Consiglio del 29 novembre 2001.
Venendo ai tempi attuali, è triste constatare che il nostro Servizio Sanitario stia subendo una ulteriore riduzione o, più pericolosamente, uno scivolamento silenzioso verso la privatizzazione.
Alcuni dati, sia in relazione al finanziamento che alla situazione del personale professionale pubblico, non sono rassicuranti a cominciare dalla legge di Bilancio 2023 (si veda a tal proposito anche Marco Geddes da Filicaia, Attacco al SSN. Svegliamoci!, in «Salute Internazionale», 12 dicembre 2022): è previsto un potenziamento del 2,2% a fronte di un’inflazione del 12% a base annua. Inoltre, secondo il NADEF (Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Bilancio), la spesa sanitaria in percentuale del Prodotto Interno Lordo passerebbe dal 6,7% del 2023 al 6,1% del 2025. Altro problema: la perdurante carenza di personale, soprattutto infermieri, aggravata da quella strana attrattiva che sta lusingando i medici verso la libera professione nel privato ritenuto più remunerativo, stante la totale inadeguatezza dei contratti pubblici di categoria. Un piccolo significativo allarme: il rinvio al 2024 dell’aumento delle indennità di pronto soccorso, settore veramente strategico per ogni struttura ospedaliera.
Ad aggravare la situazione è da ultimo arrivato il fenomeno dei cosiddetti “medici a gettone”: «Ogni giorno in Italia sette medici decidono di abbandonare gli ospedali pubblici (+39% nel 2021) a causa delle condizioni lavorative insostenibili, dell’eccessivo carico di responsabilità e degli stipendi troppo bassi rispetto alla media europea. Le strutture sanitarie corrono ai ripari servendosi dei medici a chiamata, ma chi sono i medici a gettone? Si tratta di medici pagati per coprire un singolo turno di lavoro, di solito 12 ore. Dietro questo fenomeno ci sono delle cooperative che fungono da intermediari con l’azienda ospedaliera e che arrivano ad arruolare medici anche con un semplice messaggino in chat. Spesso si tratta di medici giovanissimi, senza esperienza e senza specializzazione, l’importante è che siano iscritti all’Ordine dei medici» (Cristina D’Amicis, I compensi d’oro dei medici a gettone, in «Today Economia», 25 ottobre 2022).
Sono questi alcuni dei segnali di quello che molti osservatori ritengono sia una privatizzazione strisciante del Servizio Sanitario Italiano. Una lapidaria e famosa affermazione di Noam Chomsky descrive chiaramente il subdolo processo che porta alla privatizzazione: «Togli i fondi, assicurati che le cose non funzionino, fai arrabbiare la gente, e lo consegnerai al capitale privato».
Ecco allora come i lunghi tempi di attesa, i vari ticket – a volte particolarmente costosi – le inefficienze di particolari cure, la constatazione di non poter contare su tempi di attesa fisiologici, su strutture sanitarie efficienti, con personale disponibile e attento, spinga, tutto questo, molti cittadini a seguire un percorso che con brutto termine viene definito dei “solventi”.
Ovviamente, se continua l’erosione del servizio pubblico, si prospetta un avanzamento progressivo del privato. Un privato che però agisce sotto le ferree logiche di mercato, e si muove solo se quegli interventi, quei settori sanitari abbiano la possibilità di essere o diventare un buon affare. Basterebbe uno sguardo al sistema americano e a quel che sta succedendo in Inghilterra dalla Thatcher in poi.
La cosa triste e sconcertante non è tanto che da diversi anni si stia pian piano smantellando il Servizio Sanitario Nazionale, ma che tutto questo accada nella più assurda indifferenza non solo dei decisori politici, ma soprattutto dei cittadini, che sembrerebbe non siano ancora del tutto coscienti (o forse rassegnati?) di come si stia avvicinando velocemente il tempo di dover pagare tutta la sanità direttamente di tasca propria!
Quale sarà allora – tornando a ciò che qui ci interessa – il destino futuro del nostro welfare territoriale sociosanitario?
Credo che prima di tutto sia difficile parlare di welfare territoriale sociosanitario se non si prenda atto coscientemente di doversi impegnare con tutti i mezzi e fattivamente affinché da subito sia bloccato ogni tentativo di smantellamento dei pubblici servizi sanitari e sociosanitari e che anzi, contemporaneamente, si lavori ad un loro forte rilancio e potenziamento, richiedendo scelte politiche che garantiscano: risorse finanziarie adeguate, seri standard condivisi del sistema organizzativo e operativo, adeguamento numerico e qualitativo del personale, cui riconoscere tangibilmente (ottime retribuzioni!) la preziosità del lavoro di tutti i professionisti – sia del sociale che del sanitario.
Se poi vogliamo ribadire che nei servizi territoriali serva rivitalizzare quell’importante cultura e prassi operative centrate sull’unitarietà e unicità della persona, dobbiamo essere convinti che non basti più un ottimo approccio medico/riparativo che, se da una parte ha raggiunto ottimi risultati nel risolvere problemi di acuzie, dando validi sistemi di cura soprattutto nelle strutture ospedaliere e favorendo, tra l’altro, con il concomitante progresso economico/culturale dei cittadini, un notevole allungamento della loro vita, dall’altra stenta ad affrontare i particolari disagi esistenziali di quei cittadini che, non avendo malattie da acuzie, vivono situazioni o di cronicità, o di disabilità stabilizzata o di malattia mentale in recovery o di progressiva non autosufficienza. Questi cittadini hanno quindi diritto a risposte altre, ugualmente efficaci e diversificate.
Serve, quindi, riportare ad unitarietà ciò che è stato arbitrariamente separato. Serve non solo suscitare una maggiore attenzione dei decisori legislativi per ricevere chiare ed efficaci leggi, ma soprattutto serve produrre un diffuso cambiamento culturale e operativo che aiuti i servizi sanitari a non affrontare più con la sola cultura medico/riparatoria che (come abbiamo accennato) è considerata ottima e indispensabile nelle strutture ospedaliere, ma non può essere esclusiva nei servizi territoriali di prossimità, che non possono essere considerati e organizzati unicamente come poliambulatori, come purtroppo sembra indichino gli indirizzi che si stanno concretizzando nelle Case della Comunità, dove, per rispondere al multidimensionale problema della salute, si sta puntando quasi esclusivamente su una forte presenza di medici, infermieri e personale specialistico strettamente sanitario, considerando residuale e scarsamente necessaria la presenza di professionalità del sociale, vagamente coniugato più che altro come supporto e non come irrinunciabile lavoro professionale sui determinanti sociali di salute, la cui influenza non si risolve con qualche ora di servizio sanitario domiciliare, qualche sussidio economico, qualche tentativo di co/progettazione di slegati servizi di promozione esistenziale con gli Enti del Terzo Settore.
È l’assenza di una visione e di un progetto unitario territoriale che continua a mettere in campo un incoerente mix di soluzioni parziali, slegate e per pochi, mentre occorre affrontare problemi unitari, dovuti soprattutto – ripetiamolo – a cronicità, disabilità, salute mentale compromessa, solitudine, povertà economica ed esistenziale. Un puzzle che non riesce più a ricomporsi, stante le diseguaglianze strutturali delle tessere che dovrebbero comporlo.
L’invito è pertanto quello di rilanciare un impegno di lavoro corale per un servizio pubblico forte e un “ritorno all’unitarietà” perduta dei servizi territoriali.
Proviamo dunque a fare un ritorno al passato per costruire un solido futuro. L’Ente Locale, come sappiamo, è costituzionalmente l’unico Ente di prossimità per tutti i cittadini di quel contesto sociale chiamato territorio e quindi è considerato l’àmbito più efficace per un sistema di welfare che voglia raggiungere obiettivi di equità, universalismo e sostenibilità. All’Ente Locale spetterebbe, di conseguenza, la responsabilità organizzativa, gestionale e di erogazione dei servizi sociosanitari, per un’efficace tutela sociale dei cittadini, garantendo dinamiche di gestione dei servizi sociosanitari tali da incidere su ogni diseguaglianza territoriale e sociale.
Ma il nostro welfare territoriale continua a non disporre di tutto questo, non disponendo di un’efficace e strutturale interazione e integrazione tra interventi socio-assistenziali e interventi sanitari, come pure di uno stretto e unitario sistema di progettazione, programmazione e gestione. Il risultato, lo diciamo da tanto tempo, è una situazione frammentata e diversificata, niente affatto volta a favorire un cambiamento positivo delle situazioni di precarietà esistenziale dei cittadini.
È giunto pertanto il tempo di affrontare il vero problema che precarizza il governo dei sistemi locali dei servizi e degli interventi sociosanitari: la divisione della governance tra Regioni ed Enti Locali dei servizi sociali e dei servizi sanitari. Divisione, a mio parere, non del tutto coerente con il dettato costituzionale di sussidiarietà sia verticale che orizzontale e per nulla adeguata a co/programmare e co/progettare un solido unitario welfare territoriale, promotore e facilitatore dei diritti sociali dei cittadini.
Credo che si debba affrontare prima di tutto la vexata quaestio dell’integrazione sociosanitaria, che mai sarà risolta se la Regione non si deciderà a ridare agli Enti Locali potere di governance della sanità territoriale (Legge 833/78) e ad esercitare un ruolo attivo nell’affrontare seriamente tutti i condizionamenti di salute dovuti ai determinanti sociali, e soprattutto dare ai cittadini una chiara percezione di quale sia l’Ente cui richiedere ed esigere, senza rimpalli di responsabilità, un’unitaria e multidimensionale co/progettazione sia territoriale che dei singoli cittadini.
Queste sono le fondamentali decisioni importanti che servono per dare buone prospettive di bene-essere per tutti i cittadini. Lo ripetiamo con insistenza: ai servizi territoriali serve una governance unica, un ordinamento dei servizi territoriali (finalmente sociosanitari) con standard organizzativi, strutturali, finanziamenti appropriati e quote di personale professionale necessarie per gestire quel preciso programma/progetto a sostegno del bene-essere dei cittadini di quel determinato ambito territoriale.
In sintesi servono servizi che siano veri e competenti accompagnatori esistenziali dei cittadini, soprattutto se segnati da fragilità esistenziali e che fanno fatica a tenere il passo.
Sono questi gli strumenti organizzativi indispensabili che, insieme ad una buona co/programmazione e co/progettazione con gli Enti del Terzo Settore, renderebbero visibilmente esigibili quei diritti sociali che, diversamente, si continuerebbe a ri/reclamare (ormai, oserei dire, stancamente!) con richieste di sole nuove leggi, mentre il nostro welfare territoriale continuerebbe a restare ancora povero e improduttivo, facile preda di chi vorrà inserirsi in esso con intenti lucrativi (anche da deviati Enti di Terzo Settore!), riservando prestazioni e interventi solo a chi ne abbia la disponibilità di mezzi economici.
Se poi con un salto ulteriore di qualità riuscissimo a dare al nostro welfare territoriale la capacità di essere generativo non solo di soluzioni per problemi di sofferenza esistenziale, ma anche di esperienze di solidarietà, di positive convivenze, di progetti di accompagnamento della vita, di sostegno alla possibilità delle persone di partecipare direttamente alla definizione del proprio percorso di bene-essere personale, di integrazione di tutti i sistemi a partire dal sociale e dal sanitario, di coinvolgimento di tutte le risorse istituzionali e personali e familiari, comunitarie, avremmo finalmente dato la possibilità a tutti di tutelare il proprio bene-essere calibrato al proprio contesto di vita.