Leggo su queste stesse pagine il contributo di riflessione della UILDM Nazionale (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che invita a non tenere conto della presenza di una persona con disabilità nel nucleo familiare, cancellato a colpi di pistola da Marco Vicentini, all’Aquila, e quindi a non liquidare il fatto come «dramma della disabilità».
Capisco che si tema lo stigma e quant’altro, ma chiedo di avere coraggio e di fronteggiare finalmente una questione fondamentale e sempre trascurata: l’impatto che può avere su un genitore la sorte di un figlio nato con una patologia tale da renderlo con disabilità.
Nessuno, fin dall’inizio, ti aiuta e ti affianca nel tuo percorso di genitore che noi abbiamo chiamato, magari in modo naive, “tosto”, al punto da intitolarci l’Associazione di cui siamo membri [Genitori Tosti in Tutti i Posti, N.d.R.], ma la realtà è che quel genitore è destinato a fare il triplo della fatica, rispetto ad un collega cui è nato un figlio “normodotato”: non ci sono, in primis, aiuti psicologici, e invece una palestra in cui esplorare e capire il nostro porci nei confronti della disabilità sarebbe fondamentale per gli anni che ci attendono e per migliorare il contesto che ci circonda, sempre asciutto ed escludente quando non discriminante e abusante.
Quale base di forza serve per poter accogliere il macigno che significa, fin dai primi giorni di vita, terapie invece che parchi gioco, terapie invece che corsi di basket o danza classica, terapie invece di amici con i quali tuo/a figlio/a esce, terapie invece che tempo scuola e ancora progetto ad hoc che tu genitore elabori per dare un lavoro o una parvenza di esso, perché in Italia il settore dell’inserimento lavorativo è un immenso flop… La persona con disabilità, una volta maggiorenne, è abbandonata a se stessa, non esiste nulla a parte ovviamente i centri diurni (“ghetti”) e residenze (altri “ghetti”). Dal 1992, anno in cui è uscita la Legge Quadro 104, non è cambiato niente per colmare il gap che separa le persone con disabilità da quelle “normodotate”. Per fortuna ci viene in aiuto l’Europa che impone la fine degli istituti e l’inserimento nel tessuto sociale, nonché l’assistenza continuativa a domicilio anche nei casi più gravi o di assenza di familiari assistenti.
Qualcuno si è mai soffermato a pensare che cosa significhi sapere che tuo figlio morirà perché la sindrome che ha è letale anzitempo e che non ci sono alternative? Come si allevia il dolore che deriva da questa consapevolezza? Si è mai pensato che vi sono genitori che passano un tot di anni consecutivi in attesa dell’esito dell’esame genetico successivo, dopo che l’ultimo arrivato è negativo e ha escluso l’ennesima bruttissima e letale sindrome? Pare che il tempo medio per arrivare ad una diagnosi in Italia sia di quattro anni, ma ci sono casi di anche vent’anni e non sono così rari.
E non si pensi si stia parlando di poche centinaia di casi: i soli Malati Rari in Italia sono infatti circa due milioni cui vanno ad aggiungersi quelli in condizioni derivate da traumi alla nascita o post nascita che compromettono l’attività neurologica e ne segnano inevitabilmente il destino.
Vorrei perciò invitare le Associazioni a non nascondersi dietro ad un dito: sono parte in causa e dovrebbero adoperarsi per il benessere dei genitori, dato che tante di esse sono animate proprio da genitori. Possibile che nessuno pensi al benessere della “categoria”? È così difficile pensare a dei protocolli di affiancamento ai genitori nel loro percorso?
Colgo quindi l’occasione per rinnovare una volta ancora un appello: chi ne ha il potere lavori alla legge sul riconoscimento del caregiver familiare che attendiamo ormai da trent’anni, per far sì che vengano finalmente regolati e normati i servizi che servono a noi genitori per fare al meglio il nostro lavoro di caregiver familiari; questo significa anche ottimizzare le risorse sui territori e sicuramente razionalizzare le spese.