La rappresentanza femminile in politica è aumentata nel corso dei decenni, anche se ancora permangono disuguaglianze che in Italia si tentano di superare con quote di genere e doppia preferenza sulla scheda elettorale. Se guardiamo la storia internazionale recente, troviamo Kamala Harris, prima vicepresidente donna degli Stati Uniti d’America, Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Europea, Angela Merkel, cancelliera tedesca dal 2005 al 2021, Giorgia Meloni, prima donna presidente del Consiglio in Italia ed Elly Schlein, neoeletta segretaria del Partito Democratico. Prima di loro nel nostro Paese sono state pioniere, tra le altre, Nilde Iotti, presidente della Camera per diverse legislature e Tina Anselmi, la prima donna a capo di un Ministero in Italia, tra i fautori della riforma che introdusse il Servizio Sanitario Nazionale; all’estero, il secolo scorso annovera l’indiana Indira Priyadarshini Nehru-Gandhi, il primo ministro dello Stato di Israele Golda Meir, e la lady di ferro inglese Margaret Thatcher.
Quando ho iniziato a documentarmi per questo approfondimento, scegliendo di introdurlo con un breve excursus sulle donne che hanno fatto la storia della politica, confesso che sono rimasta un po’ stupita nel non trovare il nome di Rosa Luxemburg, figura di spicco del socialismo rivoluzionario, una delle principali teoriche del comunismo tedesco, filosofa e riformatrice, economista e rivoluzionaria. Una personalità sfaccettata, sempre coerentemente dalla parte degli oppressi, che seppe «gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola», come scrisse in una lettera inviata durante uno dei tanti periodi di prigionia.
Rosa Luxemburg all’anagrafe si chiamava Róża Luksemburg, nome che evidenzia l’origine polacca. Nacque infatti a Zamość il 5 marzo 1871. La cittadina faceva parte dell’allora Nazione della Vistola, inclusa nell’Impero Zarista. La sua era un’agiata famiglia ebrea sui generis, che non aveva particolari contatti con la comunità ebraica locale, malgrado un terzo degli abitanti di Zamość condividesse la medesima religione; in casa si parlava polacco e non yiddish, si conosceva bene sia il tedesco che il russo, lingua ufficiale dello Stato. Eliasz, il padre, era un commerciante di legname dalle idee politiche liberali; Line Löwenstein, la madre, era figlia di un rabbino, religiosa e conservatrice, studiava i testi sacri e amava la letteratura polacca e tedesca.
Rosa era la più giovane di cinque figli, una bambina brillante, sorridente e affettuosa, la prediletta della famiglia. Quando ebbe due anni, nel 1873, i Luksemburg si trasferirono a Varsavia, perché soltanto una grande città avrebbe potuto garantire ai bambini quella solida cultura che il padre voleva per loro. Poco dopo il trasloco, arrivarono i problemi di salute che segnarono l’esistenza di Rosa. La piccola venne colpita da una malattia mal diagnosticata, forse tubercolosi ossea oppure semplicemente un’anca lussata. La ingessarono e con quel pesante gesso rimase a letto un anno intero. Al termine del confinamento, una gamba era più corta dell’altra, il che la fece zoppicare per il resto dei suoi giorni.
Iniziò presto a detestare la pietà delle persone, un’avversione che non le passò neppure da adulta, così faceva grandi sforzi per camminare, riducendo al minimo l’impatto visivo della sua andatura; non voleva attirare l’attenzione su di sé per quello che era considerato un “difetto da compatire”. L’attenzione l’attirava, ad onor del vero, anche per l’intelligenza fuori dal comune. A cinque anni già inviava i suoi articoli ad un giornale per bambini, da sola aveva imparato a leggere e scrivere. A scuola eccelleva, ma in un sistema dove era proibito parlare polacco, malgrado si trovassero in Polonia, essere la più piccola della classe, per di più ebrea e con un’evidente disabilità, acuì la sua percezione delle ingiustizie e iniziò a formarsi una profonda coscienza sociale, quella che aveva sempre respirato in casa dove si odiava l’assolutismo russo.
Nel 1884 i genitori la iscrissero al liceo, dove entrò in contatto con un movimento rivoluzionario clandestino. La mentalità non allineata con il regime le costò la medaglia d’oro che avrebbe meritato come ricompensa al termine dell’impeccabile percorso scolastico. Motivazione: “Atteggiamento di opposizione alle autorità”. Per nulla intimorita, nel 1887 si unì al partito marxista polacco, Proletariat, ricostituitosi di nascosto per volere di Marcin Kasprzak dopo la repressione finita nel sangue l’anno precedente. Ne diventò un elemento di punta, mentre nel Paese aumentavano gli scioperi e le manifestazioni, e tutti i gruppi di opposizione venivano decimati dagli arresti.
Nel 1889 l’attività di Rosa nei circoli rivoluzionari venne scoperta, rischiava la prigione. Non avrebbe mai rinnegato i suoi ideali, era pronta ad accettarne le conseguenze, ma gli amici la convinsero a lasciare la Polonia e proseguire gli studi all’estero (in Polonia, oltretutto, l’istruzione universitaria era negata alle donne). Passò la frontiera nascosta in un carro da fieno e arrivò a Zurigo.
In Svizzera si registrò come Rosa Luxemburg, modificando un po’ il nome per ragioni di sicurezza, e prese alloggio nella famiglia di Karl Lübeck, uno scrittore socialista tedesco in esilio. Lui aveva difficoltà a vedere, Rosa lo aiutava nel suo lavoro e in questo modo prese confidenza con letterati vicini al partito socialista tedesco.
Si iscrisse alla facoltà di filosofia, studiava con ardore i classici dell’economia politica, seguiva corsi di matematica e storia naturale. Botanica dilettante, grande amante dei fiori, delle piante, degli animali, Rosa contrapponeva un carattere determinato e sempre pronto all’azione ad una rara delicatezza d’animo, quella che le fece scrivere: «[…] tutte le mattine ispeziono scrupolosamente le gemme di ogni mio arbusto e verifico dove ce ne sono; ogni giorno faccio visita a una coccinella rossa con due puntini neri sul dorso che da una settimana mantengo in vita su un ramo, in un batuffolo di calda ovatta nonostante il vento e il freddo; osservo le nuvole, sempre più belle e senza sosta diverse, e in fondo io non mi considero più importante di quella piccola coccinella e, piena del senso della mia infima piccolezza, mi sento ineffabilmente felice».
La passione dominante rimaneva comunque la politica: l’atmosfera elettrizzante di Zurigo solleticava la sua mente, l’Università era frequentata da giovani rivoluzionari, ragazze e ragazzi che in alcuni casi avevano già conosciuto le persecuzioni zariste. Vivevano di ideali puri e disinteressati, trascorrevano il tempo libero in animate discussioni politiche e filosofiche. Rosa si adeguava. ma, sotto sotto, fremeva per passare dalle parole ai fatti. Se ne accorse anche il titolare della Cattedra di Economia Politica, un uomo colto eppure timoroso di alzare lo sguardo oltre i libri. Rosa lo criticava apertamente per questo atteggiamento, e lui dopo anni, in un’autobiografia, la ricordò come la sua migliore alunna.
Nel 1890 conobbe Leo Jogiches, un militante lituano sfuggito in Svizzera. Uomo straordinariamente intelligente, incarnava il prototipo del rivoluzionario romantico. Leo e Rosa si innamorarono, una relazione che tra alti e bassi durò fino al 1907. Le persone si chiedevano cosa lui trovasse di attraente in lei che non incarnava i classici “canoni” della bellezza femminile: «Era piccola di statura e aveva una testa sproporzionatamente grande; un tipico volto ebreo con un grosso naso […] aveva una camminata pesante, a volte irregolare, e zoppicava; a prima vista non suscitava un’impressione favorevole, ma bastava passare un po’ di tempo con lei per accorgersi della straordinaria vitalità ed energia di quella donna, della sua intelligenza e vivacità, dell’elevatissimo livello intellettuale in cui si muoveva». Quanti pregiudizi all’inizio di queste righe scritte da uno dei loro amici, a cominciare da quel cenno al “tipico volto ebreo”! La verità è che Rosa e Leo erano due anime che seppero riconoscersi. Insieme fondarono un giornale, «Sprawa Robotnicza» («La Causa operaia»), di cui la Luxemburg fu l’animatrice. Si trasferì a Parigi per dirigerlo e per fare ricerche per la sua tesi di dottorato. Dalla Francia inviava lettere al fidanzato chiedendo più fondi per il giornale e non mancando di rimproverarlo per le sue carenze emotive. Nel frattempo si era iscritta alla Facoltà di Giurisprudenza e iniziava a distaccarsi dalla linea del Partito Socialista Polacco, una frattura che la portò a fondare, insieme a Leo, la Socialdemocrazia del Regno di Polonia, un nuovo movimento politico che si costituì in clandestinità a Varsavia nel marzo 1894.
Le strategie politiche che elaborò in quegli anni, la ferma convinzione che fosse necessario unire il proletariato russo con quello polacco, il pensiero che nessuna nazione potesse veramente essere libera nelle sue Istituzioni se oppressa in qualche modo da un’altra nazione, vennero più tardi ammesse dai più eminenti teorici marxisti.
Dopo il conseguimento del dottorato e una breve parentesi in Polonia per la morte della madre, nel 1898 Rosa si trasferì in Germania, il centro di gravità della politica europea. Leo si unì presto a lei, ma ufficialmente la donna era sposata con Gustav Lübeck, figlio del suo vecchio amico Karl; il ragazzo accettò il matrimonio fittizio per consentire a Rosa di ottenere il permesso di residenza. Si guadagnava da vivere come giornalista nella stampa del partito e in riviste economiche, a Dresda e a Berlino, acquisendo in poco tempo una posizione di primo piano nei quadri della socialdemocrazia tedesca e cominciando ad avere un contatto diretto con la gente.
Ogni suo discorso pubblico era un trionfo, minuta e gracile, stupiva con un’inusitata forza di persuasione, sapeva infiammare e convincere le masse. «Salgo sulla tribuna come se non avessi fatto altro negli ultimi vent’anni», scrisse a Jogiches; i compagni di partito ne ammiravano la perspicacia e il temperamento combattivo.
Nel 1904, il primo arresto e la prima di tante permanenze in carcere. Dietro le sbarre si svelava la sua intensa umanità. Se all’esterno gli avversari l’avevano soprannominata “la sanguinaria Rosa”, se perfino i caricaturisti la disegnavano con i tratti di una strega invasata, aveva una tenerezza e una sensibilità non comuni. Adorava i bambini, amava la musica e la poesia, cantava e dipingeva. Dalla finestra della prigione erano sufficienti un filo d’erba che cresceva e il canto di un uccello per rallegrare le giornate buie. Il cuore era sempre teso alla lotta politica: «L’interesse delle masse in movimento: lo sento anche qui penetrare attraverso le mura della prigione», scrisse ad un amico. La detenzione ne indeboliva il corpo, ne esasperava i nervi, ma seppe mantenere l’ottimismo: «Nella vita sociale, come nella vita privata, bisogna accettare tutto ugualmente, tranquillamente, con un’anima elevata, con un sorriso di dolcezza».
Il primo tentativo di rivoluzione in Russia, nel 1905, la riempì di entusiasmo. Tornò nella terra natale con documenti falsi e venne di nuovo imprigionata. Rimase stoica nel carcere di polizia di Varsavia, nella cella scura e umida senza acqua né igiene, convinta a compiere fino in fondo il suo dovere.
Scriveva lettere, raccomandando ai sostenitori «l’azione rivoluzionaria più energica, ma anche la più grande umanità». Venne rilasciata grazie al certificato di una commissione medica che accertò il deterioramento delle condizioni fisiche, una combinazione di anemia, problemi di fegato e allo stomaco. Trascorse alcuni mesi in convalescenza tra le terme di Russia e Finlandia, dedicandoli alla stesura del libro Lo sciopero di massa.
Trotskij, uno degli intellettuali e ideologi della rivoluzione russa, la incontrò al congresso internazionale del partito a Stoccarda, nel 1907, e la descrisse come «una piccola donna, fragile e anche dall’aspetto malaticcio, ma con un volto nobile e begli occhi che irradiavano intelligenza; ha affascinato per il puro coraggio della sua mente e del suo carattere».
Tra il 1907 e il 1914 insegnò Economia Politica in Germania. Furono anni di contrasti con Lenin, a cui contestava l’idea di un partito formato soltanto dall’élite proletaria, e più tardi con Stalin di cui non condivideva il progetto di rivoluzione che abbatteva la democrazia e non la estendeva: «Un mondo deve essere sconvolto, ma ogni lacrima inutile è un’accusa, e l’uomo frettoloso che correndo verso il suo compito schiaccia un povero vermiciattolo, commette un crimine», scrisse mostrando ancora una volta i suoi sentimenti generosi e il profondo senso della realtà sociale.
La vita personale, intanto, si faceva tormentata. Aveva sacrificato la famiglia per la carriera politica, nel rapporto con Jogiches non era mai stata fedele. Nel 1907 lo lasciò per unirsi ad un ragazzo di quindici anni più giovane, sette anni dopo a sua volta sostituito con Paul Levi, il suo avvocato difensore, anch’egli più giovane. Possiamo soltanto immaginare lo scandalo scatenato da queste relazioni: allora (e in parte ancora oggi) una donna che si accompagna ad un uomo di età inferiore è vista con “sospetto”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tuttavia, Rosa non era una femminista, nonostante le lotte per vedersi riconosciuta come leader in un ambiente maschile e maschilista, dove scherzava definendosi «l’unico uomo del Partito Socialdemocratico di Germania».
Allo scoppio della prima guerra mondiale lasciò l’insegnamento per dedicarsi anima e corpo all’attivismo. Non smise mai di appellarsi alla solidarietà internazionale dei popoli, manifestò più volte contro il conflitto e per questo, nel 1915, fu nuovamente mandata in prigione per incitamento alla disobbedienza.
Rinchiusa nel carcere femminile di Berlino, riceveva lettere dagli amici, non pensava a se stessa che pure stava male, ma si sforzava di indovinare lo stato d’animo dei suoi corrispondenti per rispondere con parole di incoraggiamento: «[…] vorrei darvi ancora la mia serenità incrollabile per essere sicura che attraverserete la vita drappeggiata in un cappotto di stelle», scrisse alla moglie del compagno di partito Karl Liebknecht.
Era indulgente verso le debolezze umane, dagli amici esigeva lealtà assoluta, quella che donava lei, capace di confortarli quando erano preoccupati per la sua sorte e la sua salute. In politica, di contro, poteva diventare dura al punto da espellere i membri che non erano d’accordo con lei, e utilizzare pungente ironia per colpirli quando non esprimevano chiaramente le loro opinioni: «Esistono infatti due specie di organismi viventi, gli uni provvisti di una spina dorsale che camminano e a volte corrono. Gli altri, essendo invertebrati, strisciano o aderiscono».
Dalla prigione scrisse i princìpi guida della Spartakusbund (la Lega di Spartaco), il primo nucleo del futuro Partito Comunista Tedesco. Indomita, ma malata e dolorante, uscì dal carcere nel 1916, dopo un anno di detenzione, accolta con calore dalle operaie di Berlino. Pochi mesi dopo fu di nuovo presa in custodia cautelare a tempo indeterminato e rinchiusa in una fortezza-prigione, dove i dolori di stomaco e l’emicrania si acuirono, senza darle tregua. Aveva una gatta, Mimi, che nel suo cuore aveva sostituito il figlio mai avuto, ma dovette abbandonarla per l’ennesima volta e rimase sconvolta, l’anno successivo, quando le comunicarono che la fedele compagna a quattro zampe era venuta a mancare. Alcune ore ogni giorno le passava rinchiusa nella sala di polizia, senz’aria né luce, tra le cimici. La notte non dormiva, i passi nel corridoio, le chiavi che scricchiolavano nelle serrature, porte che si aprivano per fare entrare altri detenuti la tenevano sveglia. Un po’ di respiro lo ebbe quando, dopo diversi trasferimenti, la portarono nella prigione di Wronke, un luogo sperduto dove poteva però passeggiare nel cortile, con il cielo e il canto degli uccelli che ne lenivano la solitudine. La natura rimaneva l’oasi in cui il suo pensiero si rifugiava: «“Mi sento a casa ovunque nel mondo dove ci sono nuvole e uccelli e lacrime umane».
La parentesi di serenità non fu duratura, cambiò di nuovo carcere, non aveva più neppure il diritto di uscire dalla sua cella. Dietro le sbarre venne a sapere della Rivoluzione d’Ottobre, nel 1917, il suo umore salì alle stelle e correva con la mente agli amici imprigionati da molti anni a San Pietroburgo e a Mosca che avevano riconquistato la libertà: «“Le mie probabilità di libertà diminuiscono con gli eventi rivoluzionari della Russia. Ma i miei amici sono finalmente liberi: ciò mi riempie di una gioia pura». Seguiva con passione il corso degli eventi, riusciva tramite il contrabbando a far portare all’esterno i suoi scritti.
Rosa sapeva leggere la storia e capiva prima degli altri quale direzione stava prendendo, per lei l’esercizio della politica significava innanzitutto libertà di vivere da umani, non era un esercizio muscolare da esprimere con l’odio. Fu tra i primi ad intravedere un carattere antidemocratico nella Rivoluzione Russa, ad indovinare che avrebbe potuto trasformarsi in totalitarismo. In una valutazione pubblicata postuma affermò: «La libertà solo per i sostenitori del governo, solo per i membri di un partito-numerosi quanto si vuole-non è libertà. La libertà è sempre e soltanto la libertà di chi la pensa diversamente».
Nel 1918, con la fine della Grande Guerra, i prigionieri politici vennero rilasciati con un’amnistia, non la Luxemburg che non era accusata di alcun crimine specifico. Fu scarcerata, infine, una giovane donna con i capelli ormai bianchi che faticava a reggersi in piedi uscì dal portone della prigione dopo due anni durissimi. In Germania si stava accendendo il fuoco della rivoluzione, a Berlino i lavoratori brandivano bandiere rosse. In quei giorni, qualche segno di stanchezza in una delle ultime lettere: «Puoi dirmi perché vivo costantemente così, senza alcuna inclinazione a farlo? Vorrei dipingere e vivere in un piccolo appezzamento di terra dove posso nutrire e amare gli animali. Vorrei studiare scienze naturali ma soprattutto vivere serenamente e per conto mio, non è in questo eterno vortice».
I primi giorni del 1919 iniziò la cosiddetta “Rivolta di Gennaio” che chiedeva la deposizione del governo guidato dal Partito Socialdemocratico di Germania; nei combattimenti in strada perirono oltre mille persone. La casa di Rosa era circondata dalla polizia, lei trascorreva ogni notte in un diverso hotel, senza dormire mai.
L’11 gennaio, insieme a Karl, trovò rifugio presso una famiglia operaia, al 53 di Via Mannheim, a Berlino; lì scrisse il suo ultimo articolo, L’ordine regna a Berlino. Alle nove di sera del 15 gennaio 1919 Rosa Luxemburg e Karl Leibknecht furono arrestati. Nel tragitto in macchina verso l’Hotel Eden, dove gli ufficiali monarchici avevano organizzato la loro esecuzione, Rosa venne prima colpita con il calcio di un fucile e poco dopo assassinata sul sedile posteriore. Raggiunto un canale, il suo corpo venne gettato in acqua. Karl venne condotto nel giardino zoologico e ucciso. Leo Jogiches mandò un telegramma a Lenin per informarlo che Rosa e Karl avevano compiuto «il loro ultimo dovere rivoluzionario». Bertold Brecht le dedicò questo epitaffio: «Ora è sparita anche la Rosa rossa. Dov’è sepolta non si sa. Siccome disse ai poveri la verità i ricchi l’hanno spedita nell’aldilà».
I suoi resti furono recuperati in maggio e, il 13 giugno tumulati nel cimitero di Friedrichsfelde alla presenza di numerose persone. Non trovò la pace, nel corpo emerso dal canale non vi era traccia della gamba più corta e subito sorsero dubbi circa l’autenticità. Soltanto nel maggio 2009, stando ad una rivelazione del settimanale tedesco «Der Spiegel», i veri resti di Rosa Luxemburg si troverebbero presso l’Istituto di medicina legale dell’ospedale Charité di Berlino, se è vero che in quel corpo dimenticato dagli uomini e dalla storia sarebbe presente la malformazione femorale che l’accompagnò da quando aveva due anni.
Finì dunque brutalmente la vita di quella che il politico e storico Franz Mehring definì «il discepolo più geniale di Marx», capace di tenere testa ai giganti del suo tempo, senza fare sconti a nessuno. Rosa Luxemburg dominò il destino che non la buttò mai giù, la disabilità che avrebbe potuto relegarla ai margini non è che un dettaglio che passa quasi inosservato nella sua storia.
Considerava la militanza politica una scelta in armonia con il suo spirito pacifista, ma nella vita privata era contraddittoria, sapeva essere dominatrice e dolcissima. Ad entrambe le sue anime le persone lasciano fiori lungo il Canale Landwehr dove, nel punto in cui venne gettata già morta, è stato eretto un monumento con il suo nome che sembra voler riemergere dall’acqua, protendendosi verso chi cammina. Nello stesso luogo, ogni anno, il 15 gennaio, anniversario della sua fucilazione, tanti giovani partecipano ad una cerimonia di commemorazione.
«Quando si ha la cattiva abitudine di cercare una gocciolina di veleno in ogni fiore schiuso, si trova, fino alla morte, qualche motivo per lamentarsi. Guarda quindi le cose da un angolo diverso e cerca il miele in ogni fiore: troverai sempre qualche motivo di sereno buonumore. […] Alla fine, tutto sarà ben ricapitolato; e se così non sarà io proprio me ne infischio, anche senza la vita è per me una tale fonte di gioia». È con queste parole di Rosa che mi piace concludere. Documentarmi e scrivere di lei è stato impegnativo e stimolante. Mi auguro che, al di là delle convinzioni ideologiche, la sua figura venga conosciuta maggiormente, in modo che in futuro anche il suo nome sia incluso tra le donne che hanno fatto la storia della politica internazionale.