Stanco di essere rappresentato come una “povera anima sofferente”!

di Marco Roberto Rossetti
«Un uomo pone fine alla vita dei suoi familiari - scrive Marco Roberto Rossetti, a proposito di quanto accaduto qualche settimana fa all’Aquila -; uno dei figli si chiamava Massimo e aveva una grave disabilità. La narrazione dominante vede nella sua disabilità la causa principale dell’evento. Da persona con disabilità sono davvero stanco di essere investito da questo tipo di narrazione che mi rappresenta come una “povera anima sofferente”. Stanco di una narrazione violenta che impone forzatamente una visione tragica e disperata delle nostre vite, appiattendole e rendendole monodimensionali»

Realizzazione grafica con una mano e la scritta BASTA! in bianco su sfondo neroCi troviamo di fronte ad una vicenda tragica in cui un uomo pone fine alla vita dei suoi familiari. Uno dei figli si chiamava Massimo e aveva una grave disabilità. La narrazione dominante vede nella disabilità di Massimo la causa principale di questo tragico evento.
Da persona con disabilità sono davvero stanco di essere investito da questo tipo di narrazione. Sono tremendamente stanco di essere rappresentato come una “povera anima sofferente”. Stanco di questa narrazione violenta che vuole imporre forzatamente una visione tragica e disperata delle nostre vite, appiattirle e renderle monodimensionali. Uno sguardo che non si preoccupa minimamente di considerare il nostro punto di vista.
Sono stanco di assistere ad una narrazione che descrive con dovizia di particolari il carnefice, ma a stento indica il nome della persona con disabilità uccisa, preferendo concentrarsi solo quello della sua patologia.
Il carnefice viene presentato come «vittima della disperazione», «preoccupato per il futuro del figlio», in una chiave di lettura che legittima l’idea di omicidio caritatevole, il gesto estremo con cui si evita al/alla proprio/a congiunto/a di proseguire quella che viene considerata una non-vita, finendo poi per colpevolizzare chi ha subito una violenza estrema, che viene rappresentato come un «peso insostenibile».

Questa narrazione, derivata da bias abilisti, si serve di un linguaggio evocativo malauguratamente molto efficace. Espressioni come “inchiodato alla carrozzina” o “prigioniero del proprio corpo” non fanno altro che legittimare nel senso comune una concezione negativa della disabilità, con conseguenze negative per tutti e tutte.
I bambini e le bambine con disabilità che immagine potranno mai avere di se stessi, crescendo all’interno di un panorama mediatico saturato da siffatti messaggi? E le persone che acquisiscono una disabilità nel corso della propria vita?

Sono stanco di una narrazione che ci induce ad autosvalutarci come persone, a sentirci sbagliate e inadeguate di fronte al mondo. Che ostacola il nostro percorso di accettazione ed emancipazione che ci spetta in quanto esseri umani.
Quest’aura di negatività che avvolge la disabilità e altri elementi riconducibili ad essa, come la carrozzina, intossica le menti dei caregiver, contribuisce ad ostacolare l’elaborazione dell’esperienza di disabilità legata ad un/una familiare. Genera sofferenza indotta laddove magari non esisterebbe, con conseguenze a volte estreme.
Chiediamo ai media di cambiare il paradigma della narrazione in tema di disabilità. Chiediamo di abbandonare l’utilizzo di un linguaggio degradante e pietistico. Chiediamo ai responsabili della comunicazione di sottoscrivere la proposta di regolamentazione delle comunicazioni pubbliche in tema di omicidi di persone con disabilità ideata dal Centro Informare un’H [disponibile a questo link e tuttora aperta alla sottoscrizione di Enti e Persone, N.d.R.].

Il presente contributo di riflessione è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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