Abilismo, neologismo non troppo “neo”. Entrato nelle conversazioni attuale per designare la discriminazione, ovvero l’esclusione, verso le persone con disabilità, si fa risalire ai movimenti per i diritti delle persone con disabilità di Stati Uniti e Gran Bretagna degli Anni Sessanta e Settanta. Non meramente come lemma, quanto indubitabilmente quale concetto. Suggerisco al proposito la lettura del volume Nulla su di noi senza di noi: Una ricerca empirica sull’abilismo in Italia (Rosa Bellacicco, Silvia Dell’Anna, Ester Micalizzi, Tania Parisi, Edizioni FrancoAngeli, Open Access).
Trattandosi di discriminazione ed esclusione, l’abilismo riguarda anche il mondo della comunicazione. Le parole presuppongono concetti, quindi una parola sbagliata corrisponde a un concetto sbagliato e allora una parola può fare la differenza. Ma se il linguaggio non deve discriminare, non deve farlo per difetto quanto per eccesso. Narrare una persona con disabilità indugiando su particolari che inducono al patetico è abilismo, perché si riduce la persona alla sua disabilità, come non avesse un io al di fuori di essa. Altrettanto facendone un eroe, perché ancora il suo io resta intrappolato nella condizione di disabilità. Delle persone con disabilità, quindi, si dovrebbe parlare in maniera neutra, pertanto senza enfasi o pietismo.
E qui nasce l’equivoco: possono esistere persone con disabilità che siano di modello per la società e se sì, come vanno raccontate?
Secondo le frange più estreme del contrasto all’abilismo sembra che questa possibilità non sia contemplata. Sembra che in qualunque modo si parli si sbagli, perché si elogia la disabilità a prescindere: stare lontani da questa visione. Le persone con disabilità hanno il diritto, e il dovere, di essere di esempio. Lo stesso diritto dovere che hanno le altre.
Siamo fragili nelle nostre esistenze. Non tutti, ma è umano esserlo. Ed è umano cercare riferimenti. I Greci hanno ideato Omero, con i supereroi della guerra di Troia e del viaggio di Ulisse. La Divina Commedia trova punti fermi nell’uomo in cammino che volge alla luce, accompagnato da un narratore in un viaggio che illustra esempi in crescendo dai peggiori ai migliori. Il padre della nostra lingua enumera punti di riferimento da seguire e altri da rifuggire.
Alle persone servono esempi, persino eroi. La carrozzina non fa un eroe, recita un mio aforisma: non si è eroi per essere semplicemente essendo persone con disabilità. Ma si può esserlo per come si affronta la vita, con i suoi record sportivi, intellettuali e quotidiani. Testimoniare la propria capacità di affrontare un evento che altri faticano ad approcciare può aiutare ognuno a migliorarsi.
Non bisogna cadere nell’abilismo, perché l’immedesimarsi fine a se stesso per un commento, una lacrima e una carezza al volo lascia il tempo che trova: non cambia né l’individuo né la società di una virgola. Ma non si può pensare che le persone con disabilità non possano essere narrate in maniera positiva, quando c’è qualcosa di positivo da narrare.
La lotta all’abilismo può diventare tossica, evidentemente quando si snatura il concetto di emarginazione per eccesso, là dove per non includere in una nicchia dorata le persone con disabilità non si può narrarle affatto. Se ne esce raccontando le storie di quelle persone, possibilmente facendole raccontare a loro stesse senza invogliare all’enfasi come al piagnisteo, permettendo che scorra il messaggio che il valore di quelle persone sta nel proprio essere. Un essere che è fatto anche dalla propria disabilità, ma non solo da essa. Sia dovere di chi comunica usare il linguaggio giusto, ma nessuno tocchi il valore di ascoltare storie esemplari. Sarebbe un’altra maniera di discriminare.
Direttore responsabile di «Superando.it».
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