In coloro che, come chi scrive, hanno studiato al liceo classico, la parola mito evoca gesta straordinarie compiute da dei, semidei e eroi della tradizione greca e latina. Gesta tramandate dapprima oralmente, quindi rese immortali dagli autori classici, in larga maggioranza uomini. Vi era in quelle narrazioni una sorta di sacralità che suggeriva un’adesione fideistica.
Questo modo di approcciarci ai miti non è scomparso nelle società contemporanee, e non riguarda necessariamente quelli ispirati dalle religioni o da approcci spirituali – nei quali l’affidarsi al di là della ragione risulta in qualche modo fisiologico –, riguarda invece anche idee e concetti del sentire comune che assimiliamo in modo del tutto acritico, e che finiscono col condizionare la nostra interpretazione della realtà e persino le scelte di vita. Penso in particolare all’autonomia e all’indipendenza, due concetti così pervasivi da essere spesso usati come metro di misura del valore delle nostre e delle altrui esistenze, e che trovano la loro massima rappresentazione nel mito dell’“uomo che si è fatto da solo”.
Tutti gli esseri umani – uomini e donne – sono chiamati a lavorare su di sé per conoscersi e migliorarsi, un’attività che concorre a plasmarci e a fare di noi ciò che siamo. Se dunque intendiamo il mito dell’“uomo che si è fatto da solo” in questi termini, ne stiamo dando un’interpretazione salutare, perché coloro che investono nella crescita personale stanno anche, simultaneamente, contribuendo alla crescita della comunità a cui appartengono.
Ma non sempre questo mito viene inteso in tal modo; spesso, purtroppo, continua ad essere utilizzato per occultare l’interdipendenza che ci caratterizza come esseri umani, e dunque per tenere in piedi una delle finzioni più deleterie per le nostre società, quella di bastare a noi stessi. Ma l’uomo – inteso come essere umano – non si plasma adulto liberando se stesso dai vincoli della materia (e della società) con martello e scalpello, come nella celebre statua Self Made Man dell’artista statunitense Bobbie Carlyle. Quella statua non è altro che la rappresentazione plastica di una grande bugia sia simbolica che concreta, visto che lo stesso uomo che si sta scolpendo è stato creato dall’Autrice dell’opera.
Nella realtà l’essere umano nasce piccolo, nudo, piangente, infreddolito, bisognoso di tutto, proprietario di niente, capace di superare l’infanzia solo grazie alle cure che qualcuno o, più spesso, qualcuna, decide di offrirgli. Riceve assistenza sanitaria usufruendo di mezzi e competenze che non gli appartengono; di qualsiasi cosa materiale e culturale disponga l’ha ricevuta in dono, in prestito o in eredità dalla terra o dalla comunità, anche quando ha l’illusione di essersela comprata. Qualunque cosa pensi di possedere la restituirà alla terra e alla comunità quando il suo tempo sarà finito.
Non siamo autonomi, e neppure indipendenti, non lo siamo mai stati né lo saremo mai. Abbiamo un sacco di “debiti” con l’umanità. Possiamo passare la vita ad alimentare la finzione che non sia così, impegnandoci nell’estenuante impresa di disconoscere e nascondere l’interdipendenza – un’impresa che io chiamo cancel care (in italiano “cancellazione della cura”) –, oppure possiamo iniziare a pensare che quei “debiti” in realtà sono “doni”, e che dovremmo essere grati per averli ricevuti.
Se assumiamo che ciò che abbiamo ricevuto sia un dono – e sta a noi decidere di intenderlo così –, allora potremmo cercare un modo, o più modi, per restituire alla comunità non dico tutto, ma almeno un po’ di ciò che ci ha tenuto, e ci tiene, in vita.
Ci sono tanti modi per restituire i “doni”, ognuno e ognuna può trovare il proprio. Avendo io avuto esperienza di caregiving, la mia riflessione prende spunto da quest’attività.
Per spiegare meglio cosa intendo, provo a esemplificare come può manifestarsi la cancel care. A tal proposito torna alla mente una vicenda accaduta nel mese di giugno dello scorso anno, quando fecero molto scalpore le affermazioni contenute in un questionario di rilevazione rivolto ai/alle caregiver familiari dal Comune di Roma e da quello di Nettuno (se ne legga anche sulle nostre pagine a questo link, con l’elenco degli Articoli correlati). Una di queste era: «Sento che mi sto perdendo vita» (item della scala di valutazione Caregiver Burden Inventory (CBI – letteralmente “Inventario del carico del caregiver”) di Mark Novak e Carol Guest (in «The Gerontologist», volume 29, numero 6, dicembre 1989, pagine 798–803).
Ora, posto che i/le caregiver si ritrovano spesso a sostenere un sovraccarico di lavoro di cura determinato proprio dal fatto che la comunità scarica su di loro servizi di assistenza che andrebbero distribuiti in modo orizzontale, l’affermazione risulta interessante perché esprime un concetto che rispecchia abbastanza il sentire comune, ossia che il lavoro di cura sottragga tempo ed energie alla “vita vera”, che sia “fuori dalla vita”, che sia “una contingenza”, “un imprevisto”, “un accidente”, “un fardello”. Ma è proprio il connotarlo in questo modo che impedisce che il caregiving venga redistribuito e condiviso. Se intendiamo infatti il caregiving come “un fardello”, come potremmo non sentirci sminuiti se ci tocca in sorte di assumere questo compito? E come pensiamo di sfuggire a questo compito anche solo considerando il progressivo invecchiamento della popolazione delle società moderne?
È interessante notare come il concitato dibattito scaturito dall’impiego di quel questionario si sia incentrato sulla contrapposizione tra chi riteneva che lo strumento di valutazione fosse utile a far emergere le difficoltà e le frustrazioni del/la caregiver, e chi lo considerava offensivo per i destinatari e le destinatarie delle cure. Ma nessuna delle due interpretazioni riusciva ad emanciparsi da una lettura sminuente del lavoro di cura. Nessuno si è spinto sino ad affermare che il caregiving è parte integrante della vita, che è esso stesso vita, che ricevere e dare cura è uno dei tratti che ci caratterizza come esseri umani. Che il caregiving è uno dei modi attraverso il quale gli individui si riconoscono a vicenda e riescono a costruire relazioni autentiche e profonde. Che esso è anche un formidabile antidoto contro l’individualismo che ci vorrebbe indifferenti alle sorti altrui. E niente, mi sa che abbiamo perso un’occasione.
Eppure… quanto sarebbe più edificante e lieve il lavoro dei/delle caregiver se fosse risignificato come restituzione? Quanto sarebbe più facile redistribuirlo fra tutti e tutte se smettessimo di considerarlo sminuente? Quanta dignità restituirebbe questa interpretazione a chi presta cura e a chi le riceve? Quanto ci guadagnerebbero le comunità in termini di uguaglianza e giustizia sociale? E, in conclusione, di quante energie in più potremmo disporre se non dovessimo più tenere in piedi la finzione dell’indipendenza mentre indossiamo, mangiamo e usiamo cose che con ogni evidenza non abbiamo prodotto da soli?
Dei temi dell’interdipendenza si sono ampiamente occupate diverse attiviste nell’àmbito degli studi di genere, in particolare quelle del filone denominato dell’Etica della cura che si è sviluppato in America a partire dagli Anni Ottanta, e anche i Movimenti per la Vita Indipendente delle persone con disabilità, sorti anch’essi negli Stati Uniti, alla fine deli Anni Sessanta. Di recente la riflessione si è riaperta in relazione all’emergenza pandemica da Covid-19, grazie alla pubblicazione da parte del Care Collective, un collettivo londinese, del Manifesto della cura (disponibile anche in italiano: Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Edizioni Alegre, 2021. Se ne legga anche su queste pagine). In Italia i nuovi fermenti hanno portato alla costituzione dell’Assemblea della Magnolia, avvenuta a Roma l’8 luglio 2020, fortemente voluta dalla Casa internazionale delle donne, e sostenuta da tantissime associazioni, gruppi e individue. L’Assemblea della Magnolia ha elaborato un importante documento politico, Non c’è più tempo. Per il pianeta, per il nostro mondo, per le nostre vite. Noi siamo la cura, approvato il 6 febbraio 2021. (S.L.)