Il 5 maggio scorso l’ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica) ha pubblicato un rapporto di ricerca sugli Accessi al pronto soccorso e i ricoveri ospedalieri delle donne vittime di violenza (il rapporto comprensivo della nota metodologica è disponibile a questo link, ed è corredato dalla relativa appendice statistica).
Lo studio è stato presentato assieme al Ministero della Salute, ed è stato realizzato in ottemperanza di un accordo siglato, nel novembre 2019, dai due Enti coinvolti, per «l’alimentazione della banca dati sulla violenza di genere con i flussi informativi sanitari», e con la specifica finalità di «approfondire la conoscenza della situazione delle donne vittime di violenza che si rivolgono ai servizi ospedalieri».
L’indagine si riferisce all’anno 2021, ma considera l’evoluzione del fenomeno nel quinquennio 2017-2021, evidenziando gli effetti indotti dalle restrizioni imposte per contenere la pandemia da Covid, e confrontando i dati nel periodo pre-pandemico (2017-2019) con quello pandemico (2020-2021).
Questi alcuni dei dati contenuti nel rapporto. Nel 2021 sono state 11.771 le donne che hanno effettuato un accesso in Pronto Soccorso con indicazione di violenza, per un totale di 12.780 accessi (gli uomini sono stati 10.246 per 10.844 accessi totali). L’incidenza di tali accessi è pari a 18,4 per 10.000 accessi complessivi in Pronto Soccorso (negli uomini sono 15,1), in costante aumento dal 2017 (14,1), nonostante la generale diminuzione del ricorso al Pronto Soccorso in conseguenza della pandemia da Covid. Sempre nel 2021 si sono registrati 4,4 accessi in PS di donne con indicazione di violenza per 10.000 residenti. Le giovani donne di 18-34 anni sono state le più colpite (8,8 per 10.000), seguite dalle donne adulte di 35-49 anni (7,2 per 10.000).
I tassi di accesso delle donne straniere al Pronto Soccorso con indicazione di violenza sono più del doppio di quelli delle italiane: 11,8 per 10.000 residenti contro 4,7 nel periodo pre-pandemico 2017-2019; 10,0 contro 3,8 nel periodo pandemico 2020-2021.
Partendo dalla considerazione che, come risulta da un’ampia letteratura scientifica, anche le donne con disabilità, al pari di quelle straniere, sono maggiormente esposte al rischio di subire violenza, abbiamo analizzato il rapporto per verificare se i dati fossero stati disaggregati anche per la disabilità della vittima di violenza. Ebbene, dall’analisi risulta che la variabile della disabita non è stata tenuta in alcuna considerazione. In alcune tabelle i dati sono stati disaggregati sulla base della cittadinanza, distinguendo tra donne straniere e italiane, ma non sulla base della disabilità delle vittime.
Un unico riferimento implicito alla disabilità è contenuto nella Nota metodologica, dove, nell’individuare la casistica dei soggetti esecutori di abuso, è prevista anche la figura del/la badante, la qual cosa lascia supporre che la vittima possa essere una persona con disabilità.
Lo schema riassuntivo relativo agli esecutori/esecutrici degli abusi è riportato nella Tabella 8 dell’appendice statistica, dove il numero delle badanti è accorpato assieme ad altri soggetti (quali: madri, matrigne, figli, fratelli e nonni), in una generica categoria Altro, totalizzando, per le donne, l’1.03, per gli anni 2017-2019, e lo 0.83, per gli anni 2020-2021, per 100 ricoveri ospedalieri ordinari.
Non ci sembra invece possa considerarsi un riferimento alla disabilità della vittima quello relativo alle diagnosi di “disturbi psichici” conseguenti ai ricoveri per violenza. In particolare, nel paragrafo Traumatismi, avvelenamenti e alcuni disturbi psichici caratterizzano i ricoveri per violenza (pagina 13), è specificato che le diagnosi più frequentemente associate agli accessi al Pronto Soccorso e ai ricoveri in regime ordinario con indicazioni di violenza, rientrano nella categoria dei “Traumatismi e avvelenamenti”, e in quella dei “Disturbi mentali” (questi ultimi definiti nel Capitolo 5 della Classificazione internazionale delle Malattie, dei Traumatismi, degli Interventi chirurgici e delle procedure diagnostiche e terapeutiche).
In merito ai disturbi mentali, il rapporto segnala che gli accessi al Pronto Soccorso con indicazione di violenza «sono caratterizzati in tutte le classi di età dai disturbi d’ansia, dissociativi e somatoformi. Tra le minorenni e le donne di 50-64 anni si rileva l’associazione anche con l’abuso di alcol e l’abuso di droghe senza dipendenza (quest’ultimo caratterizza anche gli accessi delle donne di 18-34 anni)». Tale specificazione induce a ritenere che le diagnosi dei “disturbi psichici” si configurino come esito della violenza, e non come l’indicazione che la vittima avesse una certificazione pregressa di una qualche disabilità mentale. Anche questo passaggio, contenuto nello stesso paragrafo, si presta alla medesima interpretazione: «Nei ricoveri con indicazione di violenza diverse diagnosi di disturbo mentale caratterizzano le minorenni: oltre ai disturbi d’ansia, dissociativi e somatoformi, risultano associati i disturbi predominanti dell’emotività, alcuni disturbi e reazioni dell’adattamento, l’abuso di cannabinoidi e l’abuso di droghe senza dipendenza. Nelle altre classi di età, sebbene la misura di associazione risulti statisticamente significativa per diversi disturbi mentali, i valori sia di frequenza che di associazione sono generalmente più bassi».
A conferma dell’interpretazione proposta vi è il fatto che, sempre nella Nota metodologica (pagine 14-15), è segnalato che relativamente alle attività del Pronto Soccorso, «i principali contenuti informativi rilevati e trasmessi dalle regioni al Nuovo Sistema Informativo Sanitario del Ministero della Salute sono i seguenti: struttura erogatrice, dati relativi all’accesso e alla dimissione dell’assistito, diagnosi e prestazioni erogate, sesso ed età, cittadinanza, modalità di arrivo, triage post visita medica, esito del trattamento».
Dunque, tra le caratteristiche delle vittime rilevate figurano sesso, età e cittadinanza, ma non la disabilità. Analoga osservazione si può fare per le Schede di Dimissione Ospedaliera, altro strumento utilizzato nell’indagine, attraverso il quale sono raccolte le informazioni relative ad ogni paziente dimesso/a (compresi i deceduti in ospedale) dagli istituti di ricovero pubblici e privati in tutto il territorio nazionale. Ebbene, in dette schede sono incluse le seguenti informazioni relative alle caratteristiche socio-demografiche del/la paziente: «sesso, data di nascita, luogo di nascita e di residenza, stato civile, cittadinanza, livello di istruzione», ma non la presenza di una disabilità pregressa.
È fondamentale comprendere che tutto ciò confligge con le disposizioni contenute nella Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia con la Legge 77/13), che ha tra i suoi princìpi fondamentali la non discriminazione e impegna gli Stati Parti a garantire che le misure destinate a tutelare i diritti delle vittime previste nella stessa Convenzione siano applicate senza alcuna discriminazione, fondata, tra le altre caratteristiche, anche sulla disabilità (articolo 4).
Va inoltre ricordato che il GREVIO, l’organo indipendente preposto a monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul, nel suo primo Rapporto di valutazione (del 2020), ha rivolto all’Italia molteplici moniti e altrettante raccomandazioni per le inadempienze sul contrasto alla violenza nei confronti delle donne con disabilità. In una di esse tale organismo incoraggia vivamente le autorità italiane «a sostenere la ricerca e aggiungere indicatori specifici nella raccolta dei dati relativi alla violenza contro le donne che si riferiscano a donne e ragazze che sono o potrebbero essere esposte alla discriminazione intersezionale» (punto 27), ciò che costituisce un evidente riferimento alle donne e ragazze con disabilità.
Da allora, a parte poche eccezioni virtuose (come, ad esempio, una brochure divulgativa del 2022 intitolata La violenza contro le donne con disabilità e prodotta dall’OSCAD, l’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori della Direzione centrale della polizia criminale che fa capo al Ministero dell’Interno), in materia di contrasto alla violenza nei confronti delle donne con disabilità non è cambiato quasi niente. Per rendersene conto basta leggere il secondo Rapporto Ombra trasmesso il 6 aprile scorso al GREVIO dal FID (Forum Italiano sulla Disabilità) (su di esso si legga un approfondimento su queste stesse pagine).
Va per altro osservato che ai richiami del GREVIO si devono aggiungere anche quelli espressi nel 2016 dal Comitato ONU per i Diritti delle Persone con Disabilità, l’organo di esperti/e indipendenti che monitora l’attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità da parte degli Stati che l’hanno ratificata (tra questi, il nostro Paese, con la Legge 18/09). Ebbene, nelle Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia, tra i tanti richiami sulle questioni di genere, ve n’era anche uno specifico per inadempienze nella prevenzione e nella lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica (punto 44).
Infine, sulla materia della raccolta dei dati in tema di violenza, merita di essere ricordata la campagna denominata Dateci i dati, promossa quando la Legge 53/22 (Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere) era in fase di approvazione, proprio per chiedere che nelle rilevazioni triennali in tema di violenza contro le donne commissionate all’ISTAT, l’Istituto fosse vincolato a disaggregare i dati anche per la disabilità. La campagna, lanciata dal Centro Informare un’h, venne sottoscritta da una ventina di Enti, e ottenne l’approvazione di un ordine del giorno, presentato dall’allora deputata Lisa Noja, che impegnava il Governo in tal senso. Il rapporto di ricerca esaminato nella presente nota ci fa comprendere che quell’ordine del giorno è stato completamente ignorato.
Dunque ci ritroviamo a ripetere: le ragazze e le donne con disabilità sono esposte a violenza più delle altre donne, ma il sistema antiviolenza è quasi completamente inaccessibile per loro. Senza dati disaggregati anche per la disabilità non possiamo descrivere il fenomeno nella sua specificità, né programmare azioni nel campo della prevenzione, protezione e accoglienza delle vittime e punizione dei colpevoli.
Non produrre dati disaggregati per la disabilità è una forma di discriminazione istituzionale che non può essere più tollerata. Quanti altri richiami dalle Autorità di controllo internazionali dobbiamo ricevere prima di occuparcene?
Per approfondire il tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità, si può accedere alla Sezione La violenza nei confronti delle donne con disabilità, nel sito del Centro Informare un’h, mentre sul tema più generale Donne e disabilità, si può fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, oltreché alla Sezione Donne con disabilità, anch’essa nel sito del Centro Informare un’h.