Essere il parente convivente di una persona non autosufficiente rende caregiver familiari? Secondo un certo leitmotiv che sta prendendo sempre più piede pare di sì. Io invece dico no.
No, non è la parentela che rende caregiver familiare. È ciò che ho ribadito recentemente ad un interlocutore istituzionale che parlava di noi “mamme” che, come nessun altro, siamo capaci di capire e interpretare ciò che fa stare bene i nostri figli.
Una frase ad effetto che mi viene rifilata sempre, quando espongo nei dettagli le esigenze assistenziali che mio figlio non è in grado di esporre. Lui strilla, s’incacchia… balbetta una serie di parole incomprensibili e poi, sconfitto, mi chiama, perché sa bene che chi non lo conosce nemmeno proverà a capire cosa sta cercando di comunicare!
Ma la sapete qual è la verità? Non è vero: noi mamme non abbiamo nessun “dono”! I familiari non hanno poteri taumaturgici che fanno capire le esigenze, le scelte, le emozioni di chi non è in grado di manifestarli compiutamente. Anzi… morte di fatica come siamo, è già tanto se riusciamo anche a spiegare e tradurre le esigenze di chi amiamo ad altre persone, poco desiderose di capire e rispettare chi ha gravi disabilità.
Ciò che rende un familiare capace di assistere e curare come nessun altro il proprio congiunto non autosufficiente, ha un solo nome: la continuità assistenziale. Perché il punto è che il ruolo di caregiving del familiare si sostanzia in qualcosa che altrimenti non viene, purtroppo, mai garantito: una stabilità di presenza che permette d’imparare – imparare – a conoscere la persona non autosufficiente e ad aiutarla in maniera altamente personalizzata.
Occorre finalmente arrivare, nell’Italia del 2023, alla profonda consapevolezza che l’aiuto, il supporto, è tale solo se è totalmente adattato alla persona che lo riceve, altrimenti non si chiama aiuto, si chiama “mansionario aziendale”.
Sì, lo so: a livello teorico è tutto un declamare l’”individualizzazione” di ogni intervento socio-sanitario… ma nella pratica non può esistere alcuna personalizzazione di alcun tipo d’intervento, se non viene garantita una stabilità assistenziale. Per questo l’unica risposta istituzionale dello Stato verso le persone non autosufficienti diventa l’istituzionalizzazione. Non perché esista una stabilità di cura reale, ma perché nella cultura burocratico/statale ancora legata a vecchi schemi ospedalieri, viene scambiata la “stabilità dell’assistenza” con la stabilità formalizzata di luoghi (muri) e figure dirigenziali.
Peccato che questo, per la persona non autosufficiente, si traduca troppo spesso in una totale perdita della libertà e in un’esistenza contraddistinta nel vivere in funzione dell’organizzazione ospitante, ovvero esattamente il contrario di cura e assistenza individualizzata.
Quindi quale alternativa rimane ad una persona non autosufficiente che vuole restare libera e vuole trascorrere una vita degna di essere chiamata tale? Il caregiver familiare.
Io spero che a questo punto sia chiaro il concetto: il caregiver familiare svolge un ruolo che lo Stato Italiano non vuole assumersi. Ovvero garantire la stabilità assistenziale che permetta di personalizzare l’assistenza rendendola tale.
E prima di affrontare il nodo dei sostegni al caregiver familiare, vorrei che fosse chiaro anche il fatto che uno Stato istituzionalizzante come l’Italia (sì, sì… lo so: l’Italia era famosa per la sua deistituzionalizzazione, per l’integrazione/inclusione. Era. Stiamo tornando indietro a passo spedito: non ve ne siete accorti?), che tende ad investire soprattutto sui muri e sui cancelli istituzionalizzanti, non sta risparmiando: sta sprecando i pochi fondi che ha, perché per quanto cerchi di stipare gente dentro i muri, saranno sempre in netta minoranza rispetto a quelli che restano, e vogliono restare, fuori dai muri. Quindi sarebbe proprio ora che nel 2023 lo Stato Italiano si desse una svegliata e cominciasse ad investire soprattutto dove ha sempre predicato: sul supporto fuori dai muri. E il supporto fuori dai muri si chiama stabilità assistenziale.
La stabilità assistenziale non può, e non deve, essere garantita solo dal caregiver familiare, perché non è legittimo, e nemmeno lungimirante, chiedere ad una persona di assumersi l’onere totale di un’assistenza che, per esempio, dentro i “muri istituzionali” viene erogata da almeno una decina di persone.
Il caregiver, spremuto come un limone, finisce per ammalarsi – diventando anch’esso bisognoso di cure – raddoppiando la necessità assistenziale, invece di dimezzarla.
L’unica maniera per dimezzare, e risparmiare (parola che piace tanto alla nostra politica), sull’assistenza, è quella di dare assistenza stabile e personalizzata. Perché quando un’assistenza è stabile e personalizzata, il caregiver può riposarsi, può curarsi, può avere una vita di relazione perché viene realmente sostituito. Realmente sostituito.
Questo è il punto nodale: la mamma è sempre la mamma, ma l’assistenza di caregiving non coincide con l’essere mamma (figlia, sorella o partner). Investire in un’équipe in continuità assistenziale che dura anni, non mesi, non giorni, significa permettere sia alle persone non autosufficienti che ai loro caregiver familiari di restare liberi.
E perché sia ancora più chiaro, investire su un’équipe stabile significa mettere i soldi lì, in quella stabilità fatta di persone e professionisti, non nei muri.
Chiudo con un’ultima riflessione: l’assistenza personalizzata permette di adeguare le risorse al bisogno. Sì, lo so: anche questa è una di quelle frasi con cui si riempiono sempre la bocca tutti quanti, per poi finire di sparpagliare ogni tipo di risorsa a pioggia! Magari poco prima di qualche appuntamento elettorale: non c’è nulla di più efficace elettoralmente che sparpagliare risorse a pioggia. Peccato che dopo le elezioni i problemi restino tali e anzi ci si ritrova spesso con le criticità raddoppiate perché sparpagliare oboli non risolve nessun problema, soprattutto se grave.
Ogni spesa diventa un investimento solo e unicamente quando c’è alla base una progettazione. Senza un progetto c’è solo spreco.