Giustizia, Equità, Inclusione: ciascuno di noi può nascere nel posto sbagliato, o al momento sbagliato. Ciascuno di noi può arrivarci, in un dato momento della vita. Ciascuno di noi può arrivare ad essere escluso, difforme, non abbastanza o non abile, in un dato momento della sua vita, senza averlo scelto. Alcuni di noi, invece, scelgono, indipendentemente dal luogo o dal tempo in cui sono nati, o ancora, di ciò che è loro accaduto nella vita, di schierarsi. Per la giustizia sociale, appunto, per l’equità, per l’inclusione. Perché, se si decide di dedicare la propria vita agli altri, è perché vorremmo un mondo più giusto per tutti.
Ce n’è un esercito, in Italia, di persone così, di persone che hanno unito a una visione del mondo uno studio costante, un’applicazione continua, una dedizione. Un esercito fatto di operatori sociali, psicologi, pedagogisti, educatori, che vivono in perenne dissonanza cognitiva la propria dedizione ad un’idea di inclusione che si scontra, ogni giorno con un welfare privato e privatistico, con la crudezza di contratti collettivi miseri, con una costante ansia per il proprio futuro, con una gestione di progetti e fiumi di denaro che qualcuno, più tecnicamente di me, chiama “progettazione”, “coordinamento fra enti”, “coprogettazione” e così via. Che si traducono in centri diurni, di riabilitazione, case-famiglia, assistenza educativa specialistica agli studenti con disabilità. Che qualcuno (pochi) progetta e altri (l’esercito) realizza, spesso in totale solitudine dal resto della gerarchia.
L’esercito di operatori del sociale lo fa, sapendo di fare la cosa giusta. Sapendo anche che pure questo mese lo stipendio sarà misero e bisognerà fare attenzione alla spesa di tutti i giorni e rinunciare ai più piccoli piaceri della vita. Col rischio, sempre in agguato, che si scambi la professione con la missione.
Tutte le professioni che ho nominato, infatti, si occupano di assistenza specialistica per l’autonomia e la comunicazione. Tutte, invariabilmente, in dissonanza cognitiva.
Quella degli assistenti specialistici, ad esempio: gioire la mattina all’idea che finalmente il tuo studente ha scritto la sua prima parola seduto al suo banco, o ha giocato con un compagno e ha sorriso. Subito dopo accompagnarlo a mensa e vederlo rimanere senza pranzo, con lui che ti guarda e non capisce perché.
La fuga di molti, moltissimi di noi è ormai un’emorragia. Educatori, ad esempio, non se ne trovano più ed è il grande segreto di Pulcinella che nessuno ammette: in quali condizioni andranno a lavorare, questi giovani di belle, bellissime speranze? Come eravamo noi, venti, trent’anni fa. A noi, che ci abbiamo creduto fino in fondo, che abbiamo dato l’anima per gli altri e poi, durante la pandemia, ci siamo fermati e ci siamo guardati indietro. E abbiamo visto. I viaggi che non abbiamo potuto fare, o i corsi che abbiamo pagato impiegando uno stipendio, le umiliazioni subite a scuola, quando ci hanno trattato, per l’ennesima volta, come l’ultima ruota di riserva dell’ultimo carro.
Lasciare non è qualcosa che abbiamo fatto a cuor leggero, tanto è vero che molti, me compresa, abbiamo frequentato i corsi di specializzazione per diventare insegnanti di sostegno, pur sapendo che proveniamo da un mondo diverso, fatto di scelte antiche, di situazioni sempre ai margini, di difficoltà spesso irrisolvibili.
Ma dobbiamo parlare di due parole come “missione” e “professione”: se siamo arrivati fin qui, infatti, è perché abbiamo capito che non siamo missionari e che senza professionalità non si ottengono risultati, non si può cambiare il mondo. Solo che la professionalità va riconosciuta, va valorizzata, va informata di diritti, oltre che di doveri.
Riprendo il recente articolo del caro amico Salvatore “Tillo” Nocera, pubblicato da «Superando.it» [“Assistenti all’autonomia e alla comunicazione: subito il profilo nazionale!”, N.d.R.] e ripropongo la sua domanda: perché, a distanza di sei anni dal Decreto Legislativo 66/17 che disponeva la stesura del profilo unificato degli assistenti all’autonomia e alle comunicazione, le Istituzioni competenti non hanno ancora provveduto? Perché non si fa nessun ragionamento serio su una formazione approfondita, onnicomprensiva e unitaria dei futuri assistenti, che risponda realmente alle esigenze, così come si profilano ogni giorno nelle aule in cui lavoriamo e abbiamo lavorato? Forse perché i missionari rendono meglio e costano meno dei professionisti?
E parlo di formazione unitaria perché, qualunque cosa se ne pensi, gli assistenti specialistici non sono tecnici ABA [Analisi Applicata del Comportamento, N.d.R.], non lavorano solo con autistici o sordi o ciechi. Lavorano con disabilità sempre più complesse e multifattoriali, che richiedono competenze complesse, approfondite, unitarie. Perché non si può incasellare un bambino nel suo codice diagnostico. Bisogna conoscere la psicologia dell’apprendimento, la pedagogia della relazione educativa e tutti quei saperi tecnici in grado di supportare efficacemente l’inclusione scolastica di bambini, che sono tali, prima ancora che bambini con questa o quella disabilità.
Ogni volta che leggo un articolo di Tillo Nocera mi chiedo, pur conoscendolo e ammirandolo da anni, perché lo fa, perché si impegna sempre con tutto se stesso, mentre altri, invece, semplicemente si limitano a dire che l’unico problema della gestione cooperativa è che gli Enti Territoriali devono pagare di più, oppure che basta solo che gli assistenti siano tutti laureati e con mille specializzazioni.
Io credo che, semplicemente, Tillo e pochi altri credano, fortemente e sempre, in una società e in un mondo più giusto, più equo.
Credo che credano, come me e contro ogni evidenza, in un mondo inclusivo.