«Il Comitato è seriamente preoccupato per la tendenza a re-istituzionalizzare le persone con disabilità e per la mancata riassegnazione di risorse economiche dagli istituti residenziali alla promozione e alla garanzia di accesso alla vita indipendente per tutte le persone con disabilità nelle loro comunità di appartenenza. Il Comitato inoltre nota con preoccupazione le conseguenze generate delle attuali politiche, ove le donne sono “costrette” a restare in famiglia per accudire i propri familiari con disabilità, invece che essere impiegate nel mercato del lavoro» (punto 47 delle Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia, grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni).
Era il 2016 quando il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, l’organo indipendente preposto a vigilare sull’applicazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, esternava questa preoccupazione riguardo al nostro Paese. Si tratta dello stesso Comitato ONU che nell’ottobre del 2022 ha accolto il ricorso presentatogli da una caregiver familiare italiana, Maria Simona Bellini, sostenendo che la mancanza di riconoscimento giuridico e di sostegno ai/alle caregiver familiari ha comportato una violazione dei diritti umani suoi, di sua figlia e del suo partner, entrambi persone con disabilità non autosufficienti di cui lei si prende cura quotidianamente, e sottolineando come ciò sia in contrasto con la citata Convenzione ONU (che l’Italia ha ratificato con la Legge 18/09).
«Questo caso rappresenta una svolta perché il Comitato ha riconosciuto la violazione del diritto di un/a caregiver familiare al sostegno sociale, oltre ai diritti delle persone con disabilità», aveva affermato a suo tempo Markus Schefer, relatore del Comitato per le comunicazioni. Lo stesso Schefer aveva osservato che «questo è anche il primo caso in cui il Comitato ha esaminato le denunce di “discriminazione per associazione”, poiché la ricorrente è stata trattata in modo meno favorevole a causa del suo ruolo di caregiver familiare di persone con disabilità» (se ne legga diffusamente anche su queste pagine).
Che la figura del caregiver italiano vada riconosciuta e tutelata è una questione accolta all’unanimità, mentre è faccenda assai più complessa trovare un accordo sulla platea di soggetti da tutelare, come pure convergere sulle tutele da predisporre.
Volendo scegliere una definizione ampia, col termine caregiver si intende solitamente indicare quella figura informale che presta assistenza gratuita, continuativa, di lunga durata e quantitativamente significativa ad una persona con disabilità, o ad una persona anziana, che non siano autosufficienti nello svolgimento degli atti quotidiani della vita. Di solito il caregiver svolge la propria attività presso l’abitazione e nei confronti di soggetti della cerchia familiare, e le donne sono largamente sovra-rappresentate (come si intuisce anche dalle Osservazioni del Comitato ONU).
In Italia l’Emilia Romagna è stata il primo soggetto pubblico a riconoscere tale figura (Legge Regionale 2/14), e da allora molti altri soggetti pubblici – Regioni e Comuni – si sono mossi in tal senso. Mentre a livello nazionale è stato necessario attendere la Legge di Bilancio per il 2018 (Legge 205/17), per avere una prima definizione ufficiale del caregiver familiare (articolo 1, comma 255*), e l’istituzione di un Fondo dedicato (articolo 1, comma 254). Si tratta tuttavia di un mero riconoscimento simbolico che non ha ancora trovato una declinazione operativa, giacché i diversi Disegni e Proposte di Legge (alcuni dei quali anche sintetizzati in un unico testo), volti a individuare in modo puntuale soggetti e tutele, presentati in Parlamento nel corso degli anni, non hanno mai concluso l’iter di approvazione.
Si spera che almeno ora, con le due Leggi Delega in materia di disabilità (227/21) e di politiche in favore delle persone anziane (33/23), promulgate in ottemperanza degli obblighi assunti con il Piano Nazionale di Ripresa Resilienza (PNRR), qualche Decreto Attuativo riuscirà a vedere la luce. Già, ma in quale direzione? Come orientarsi?
La prima considerazione da fare probabilmente riguarda il fatto che la disciplina del caregiver non dovrebbe essere in contrasto con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, la quale affida agli Stati Parti e non alle famiglie il compito di garantire i diritti delle persone con disabilità. Questa è una specificazione importante perché il motivo principale per il quale i/le caregiver italiani si vedono comprimere i propri diritti umani è dato dal fatto di ritrovarsi a dover colmare la carenza o l’assenza di servizi pubblici per la disabilità. Pertanto, in prima battuta, tutelare i/le caregiver dovrebbe significare mettere in discussione l’impostazione familistica che ancora caratterizza i servizi di assistenza italiani.
Ma non sembra questo l’orientamento. La stessa definizione contenuta nella Legge di Bilancio per il 2018 parla di caregiver familiare, e non semplicemente di caregiver, e restringe arbitrariamente la platea dei beneficiari alla cerchia familiare. Questa impostazione lascia intuire che non solo non vi è la propensione a superare il welfare familistico, ma vi è la volontà di cristallizzarlo.
Ad un livello pratico questo significa che, ad esempio, verrebbe escluso/a dalle tutele il/la caregiver liberamente scelto da una persona con disabilità fuori dalla cerchia familiare. Tale esclusione si basa su una visione idealizzata della famiglia e dei rapporti familiari che non di rado viene caldeggiata da alcuni familiari impegnati nella causa del riconoscimento del caregiver. Ma se è vero che all’interno di molte famiglie regna l’amore, non è men vero che ve ne sono altre, molte altre, in cui si consumano conflitti e violenze. Tale impostazione mira a preservare i rapporti familiari, e non a riconoscere e promuovere il lavoro di cura informale, perché se l’obiettivo fosse quest’ultimo, allora andrebbe tutelato chi effettivamente svolge il ruolo di caregiver a prescindere dal legame di parentela. E non si tratta di negare il ruolo della famiglia, ma di promuovere un’idea di cura condivisa con la comunità.
Una buona norma sui caregiver dovrebbe inoltre assumere come presupposto che nella relazione di cura sono coinvolte due soggettività distinte, e dunque mettere a fuoco che le esigenze del caregiver sono diverse da quelle della persona con disabilità. La qual cosa implica da un lato che la persona con disabilità debba poter scegliere liberamente se fare ricorso o meno al supporto di un/a caregiver, ed eventualmente per quali attività; e dall’altro che il/la caregiver possa scegliere quanto tempo e lavoro investire nei compiti di cura. Se non ci sono servizi pubblici alternativi alla cura informale – nelle varie forme: assistenza diretta, indiretta e integrata – la libertà delle soggettività coinvolte nella relazione di cura non è tutelata, o è garantita solo a chi può permettersi di pagare i servizi privati.
C’è chi propone di vincolare il riconoscimento del caregiver alla convivenza con la persona assistita, ma questo significherebbe complicare ulteriormente i già significativi problemi di conciliazione tra impegni di vita, cura e lavoro di figli e figlie di persone anziane, o di fratelli e sorelle di persone con disabilità che si sono costruiti una famiglia diversa ecc. Ciò comporterebbe il rischio che anche chi potrebbe prestare cura rinuncerebbe a farlo per non sacrificare altre relazioni ugualmente legittime e degne di tutela. Ma per promuovere il lavoro di cura informale, oltre che in termini di condivisione, è necessario lavorare anche sulla flessibilità e la conciliazione.
Un’altra proposta chiede che vengano tutelati solo i/le caregiver di persone con disabilità con compromissione della sfera relazionale e psichica, ritenendo che la circostanza di doversi sostituire a queste nelle decisioni renda incomparabilmente gravoso il loro compito rispetto a quello degli altri/e caregiver.
Tale proposta presenta diversi elementi di contrasto con la Convenzione ONU. Intanto quest’ultima non stabilisce una distinzione tra persone con disabilità diverse, ma prevede per ciascuna di esse uguali tutele. Volendo operare una distinzione, è possibile osservare che alcune persone con disabilità che necessitano di supporti intensivi richiedono anche un maggior impegno di cura, dunque il riconoscimento andrebbe commisurato all’effettivo impegno di cura.
Che una tutela basata sulla tipologia di disabilità sia inadeguata lo evidenzia anche il fatto che ci sono persone con disabilità psicosociale che raggiungono notevoli livelli di autonomia e dunque non si comprende bene per quale motivo i/le caregiver di queste persone andrebbero tutelati, mentre verrebbe escluso dalle tutele, ad esempio, il/la caregiver di una persona mentalmente lucida, ma allettata, tenuta in vita da apparecchiature elettromedicali, e che necessita di assistenza continua.
A ciò si aggiunga che l’articolo 12 della Convenzione ONU (Uguale riconoscimento dinanzi alla legge) vieta espressamente che qualcuno/a si possa sostituire alla persona con disabilità – anche a quella con disabilità psicosociale – e ammette solo processi decisionali supportati. Da ciò consegue che non si possono chiedere tutele per una cura svolta con modalità vietate dalla Convenzione ONU.
C’è poi un altro tema particolarmente “caldo”, quello della gratuità. Alcuni/e caregiver chiedono che il lavoro del caregiver venga remunerato, e che diventi a tutti gli effetti un lavoro pagato. A tal proposito è interessante notare quali misure sono state proposte dal Comitato ONU per contrastare il fenomeno che le donne italiane siano «“costrette” a restare in famiglia per accudire i propri familiari con disabilità, invece che essere impiegate nel mercato del lavoro».
In merito a tale questione, «il Comitato raccomanda: a) di porre in atto garanzie del mantenimento del diritto ad una vita autonoma indipendente in tutte le regioni; e, b) di reindirizzare le risorse dall’istituzionalizzazione a servizi radicati nella comunità e di aumentare il sostegno economico per consentire alle persone con disabilità di vivere in modo indipendente su tutto il territorio nazionale ed avere pari accesso a tutti i servizi, compresa l’assistenza personale» (punto 48 delle Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia).
Nella sostanza il Comitato ONU si guarda bene dal raccomandare di pagare le donne perché stiano in casa, evitando di vanificare decenni di lotte per l’emancipazione femminile; raccomanda invece di dare sostegni economici, servizi e assistenza personale alle persone con disabilità, perché vivano in modo indipendente. Con tale raccomandazione il Comitato ha voluto evidenziare come la sostenibilità del lavoro di cura, e anche la tutela dei diritti umani del/la caregiver, siano in realtà garantiti da tutti quei servizi che impediscono che il lavoro di cura informale diventi un’attività totalizzante per chi lo svolge. Primo tra questi la possibilità di essere sostituito/a nelle mansioni di cura.
C’è poi un ulteriore aspetto da tenere presente. I movimenti per la Vita Indipendente delle persone con disabilità si sono battuti per ottenere dallo Stato l’assistenza personale autogestita, anche per evitare che le relazioni affettive (con familiari e non) venissero “inquinate” dall’obbligo dell’assistenza. Anche pagare un/a caregiver – che di solito svolge il suo ruolo per solidarietà e affetto – può avere un effetto “inquinante” giacché se la persona con disabilità non si trovasse bene in quella relazione, oltre ad agire il conflitto da una posizione di svantaggio, dovrebbe anche gestire il “licenziamento” di una persona con cui ha un legame affettivo.
Se questo testo non fosse già abbastanza lungo, ci sarebbero molte ulteriori osservazioni da esporre. C’è però un ultimo aspetto che merita almeno un accenno, ed è un invito a prestare attenzione ai toni.
Le rivendicazioni di riconoscimento e tutela della figura del caregiver sono sacrosante, e le condizioni in cui vivono alcuni/e di loro sono veramente disumane, la qual cosa però non autorizza a rappresentare le persone con disabilità come “pesi”. E tuttavia accade, trasformando una giusta rivendicazione in un veicolo di pregiudizio e stigma per le persone con disabilità. Dunque cerchiamo di scegliere con più cura le parole da usare. Teniamo sempre bene a mente che i diritti del/la caregiver non sono violati dalle necessità di assistenza (anche continua) della persona con disabilità, ma dalla circostanza che il lavoro di cura informale non è riconosciuto, supportato e condiviso. Ricordiamo anche che la cura non è solo fatica, è anche uno dei modi per costruire relazioni autentiche e significative. Quelle che il denaro non può comprare. Quelle che ci permettono di scoprici e restare umani.
*Legge 205/17, articolo 1, comma 255: «Si definisce caregiver familiare la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18».
Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo di riflessione è già apparso. Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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