Sono Silvia Lisena, classe 1993, insegnante, scrittrice e attivista con disabilità motoria. Dal 2014 faccio parte del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), sensibilizzando sui diritti delle donne con disabilità e, in particolare, promuovendo misure di contrasto alla violenza di genere.
Con questo primo articolo inauguro una nuova rubrica di «Superando.it», Disfemminismo e altre storie, dove racconterò, indagherò e rifletterò sulla realtà delle donne con disabilità in un’ottica femminista, inclusiva e intersezionale.
Vorrei “aprire le danze” con una cronistoria sul Disability Pride, visto che quello corrente è il mese del cosiddetto “orgoglio disabile”. Ma che cos’è il Disability Pride e che ruolo vi hanno avuto le donne con disabilità?
È arrivata l’estate, la stagione della spensieratezza, del divertimento e della libertà. Forse non a caso in questo periodo si tengono due delle più importanti manifestazioni culturali che sono simbolo della libertà di espressione e della rivendicazione dei propri diritti: sto parlando dell’LGBTQIA+ Pride e del Disability Pride.
Com’è facilmente deducibile, intendo soffermarmi su quest’ultimo spiegando, in particolare, il ruolo che hanno avuto le donne con disabilità all’interno di esso.
Il Disability Pride nasce nel 1990 a Boston, negli Stati Uniti, in un anno non casuale perché, infatti, il 26 luglio il presidente George Bush firma l’ADA (Americans with Disabilities Act), ossia quello che ancora oggi è il più importante testo normativo statunitense sulla disabilità, finalizzato alla lotta contro le discriminazioni attraverso alcuni provvedimenti quali l’obbligatorietà dell’accessibilità per i luoghi pubblici e tutele per i lavoratori con disabilità. L’ADA è stato fortemente promosso dall’attivista Judith Heumann e dalla sua assistente Patricia Wright.
Nel 1995 il Disability Pride si tiene anche a New York, organizzato dal jazzista Mike LeDonne, e successivamente in altri Paesi americani ed europei, anche perché ormai il mese di luglio viene definito ufficialmente il Disability Pride Month.
In Italia le redini di questa manifestazione sono affidate a Carmelo Comisi che nel 2015 la porta nel Ragusano, poi a Napoli, a Roma, a Milano e in altre piccole e grandi città della nostra penisola.
Ma in tutto ciò cosa c’entrano le donne con disabilità? Sebbene finora io abbia nominato per lo più figure maschili, non si può trascurare il ruolo fondamentale di alcune donne con disabilità nella strutturazione e nello sviluppo del Disability Pride.
Innanzitutto bisogna sapere che le due pioniere del Disability Pride sono state Catherine O. Odette (Gran Maresciallo della Disability Pride Parade di Chicago e co-fondatrice del Jewish Lesbian Daughters of Holocaust Survivors) e Diana Viets (promotrice del Movimento per la Vita Indipendente in USA e dedicataria del Diana Viets Memorial Award). Chi lo avrebbe mai detto, no?
Il primo Disability Pride si ricorda anche per una speaker d’eccezione: Karen Thompson che ha raccontato la sua storia d’amore con Sharon Kowalski.
Entrambe docenti di scienze motorie, nel 1979 si erano unite con una cerimonia civile, ma quattro anni dopo Sharon fu investita da un automobilista ubriaco ed ebbe una grave lesione cerebrale che la portò ad avere una disabilità fisica e intellettiva. I genitori di Sharon, venuti a conoscenza dell’omosessualità della figlia, la confinarono in una casa di riposo, negando a Karen il permesso di andare a trovarla.
Così Karen diede iniziò a una serie di lunghe ed estenuanti battaglie legali per avere la tutela di Sharon, che finalmente ottenne nel 1991.
Intanto il loro caso aveva guadagnato una grande risonanza mediatica, tanto che il 7 agosto 1988 alcuni attivisti dei diritti omosessuali e delle persone con disabilità avevano decretato il National Free Sharon Kowalski Day con processioni e veglie in ben ventuno città degli Stati Uniti.
È stata la prima volta che una Corte di Giustizia ha ritenuto i diritti di una partner omosessuale pari a quelli di un coniuge legalmente sposato.
Il Disability Pride, come ogni movimento culturale che si rispetti, ha una propria bandiera. E chi l’ha creata, se non un’altra donna con disabilità?
Stavolta si tratta di Ann Magill che, partecipando alla celebrazione del ventesimo anniversario dell’ADA, rimane stupita dal fatto che, ancora una volta, gli eventi riguardanti la disabilità siano limitati a un luogo ristretto e non destinati invece a un largo pubblico; così il 4 giugno 2019 lancia l’idea della bandiera del Disability Pride che si affianca, se non sostituisce, alla già esistente bandiera della disabilità (un tricolore orizzontale: oro per la disabilità fisica, argento per la disabilità mentale e bronzo per la disabilità sensoriale).
La bandiera di Ann Magill è composta da un fulmine colorato su sfondo nero:
° lo sfondo nero rimanda al massacro di Sagamihara (Giappone) il 26 luglio 2016 all’interno di un centro di assistenza per persone con disabilità, che causò 19 vittime e 26 feriti;
° l’andamento a zigzag delle fasce rappresenta una metafora del medesimo andamento delle persone con disabilità che ogni giorno devono “schivare” barriere fisiche e mentali;
° i cinque colori equivalgono a cinque diversi aspetti della disabilità (rosso per la disabilità fisica, giallo per la neurodivergenza, bianco per le disabilità invisibili o non diagnosticate, blu per la disabilità mentale e verde per la disabilità sensoriale.
Nel 2021 questa bandiera è stata leggermente modificata perché più facile da osservare per le persone con epilessia: al posto del fulmine è stata posta una banda diagonale.
Nel prossimo articolo di questo spazio mi focalizzerò, in particolare, su alcune recenti celebrazioni del Disability Pride in Italia che hanno visto la partecipazione di attiviste con disabilità il cui contributo è stato vantaggioso sia per la riuscita delle manifestazioni in sé, sia per il loro personale percorso di empowerment [“crescita dell’autoconsapevolezza”, N.d.R.].