Poter sbagliare, oltre ogni condizione di controllo

Tutto parte da una brutta caduta in bicicletta, in questo contributo di Antonio Bianchi che introduce un’ampia trattazione sulla Vita Indipendente, il “Dopo di Noi” e il progetto di vita, cui daremo spazio nei prossimi giorni. Il parallelo è con quelle persone con disabilità che necessitano di maggiore supporto per esprimere la propria volontà e che, come chi teme di cadere in bicicletta, «vivono una costante condizione di controllo, di concessione condizionata di libertà, di impossibilità di sbagliare, di programmazione da parte di altri del proprio tempo e spazio, della propria vita»

Cartoncino blu contornato da cartoncini bianchi ostiliIeri sono uscito per la prima volta in bici da corsa, dopo una prima prova l’altroieri con le scarpe “normali”. Con la bici da corsa si usano delle scarpe con tacchetti che rendono piede e pedale solidali in modo più forte. Cosa che pone, soprattutto per chi non ha mai usato queste scarpe, ma le ha solo viste, dubbi su come sganciarsi in situazione di necessità, anche semplicemente a uno stop. È la bici con cui sono caduto.
Quando sono caduto, la bici si è sfilata da me ed è andata lontana, con solo qualche graffio. Per mesi non l’ho neppure vista, recuperata dalla signora che l’aveva raccolta alla rotonda della caduta.
Poi le prime prove con la bici a tre ruote di Pietro e con la bici normale, prima con la sella un po’ abbassata, poi progressivamente riportata all’altezza normale.
E giri in strada, prima solo in pianura e poi con qualche piccola salita. Bici di bassa qualità, ruote con sfere e raggi forse calibrati per brevissime percorrenze, dentro il paese.

Da qualche tempo avevo cominciato a pensare di riprendere la bici da corsa, magari sostituendo i pedali con una coppia senza attacco per i tacchetti. E al portare nello spazio del dialogo il tema “paure” si è manifestato con forza.
Cinzia atterrita. Come biasimarla? Dopo quello che è capitato e con la stessa bici che lei vede pericolosa per sua stessa natura. Le ruote sottili, veloci. I pedali che bloccano i piedi con i tacchetti. E il manubrio che porta a quella posizione sbilanciata in avanti.
Lei si prodiga in consigli che non le ho chiesto. Per l’acquisto di una bicicletta di qualità migliore, ma non da corsa.
Io ascolto queste parole, come non potrei, e ne misuro l’effetto su di me. Non è solo di Cinzia la paura, io stesso immagino tutte le situazioni che potrebbero risultare pericolose. E su tutte la curva attorno alla rotonda, di cui ora conosco materialmente il porfido che le circonda e i tombini di ghisa che ne punteggiano il perimetro.
Si tratta di una sensazione forse mai provata in modo così intenso. Sentire il desiderio di riprendere, allargare l’orizzonte dei giri fino al lago, meta consueta, e avere la possibilità di immaginare qualche variazione, con libertà. E confrontarlo con la responsabilità di evitare il ripetersi di quello già accaduto “per colpa mia”. Come potrei ritelefonare a casa dicendo sono caduto ancora, potete venire ad aiutarmi? Una pressione che mi schiaccia, mi fa sentire colpevole ancora prima di muovere un gesto. E irrigidito nei gesti.

Ieri questo dialogo è andato in scena ancora, ma infine ho preso le scarpe con i tacchetti e le ho indossate. E sono salito in bici. Ho agganciato i tacchetti, dopo qualche tentativo, in gesti non più automatici. Ho provato a sbloccare il piede e non ho avuto difficoltà, anche a sinistra. E allora ho varcato il cancello per un breve giro di prova in strada.
Ho pensato in quei primi metri a Pietro, al carico di aspettative e di controllo che pesano su di lui. A quale fatica corrisponda la responsabilità di rispondere a quelle immagini e paure. E quanta incertezza in più induca nel muoversi, per non cadere.
Ho pensato a chi ha commesso un reato e, scontata la pena, ritorna in libertà e deve costantemente dimostrare di essere degno di fiducia e ogni respiro divergente potrebbe smentirlo.

Ho fatto la prima curva a sinistra sul porfido, con due tombini sulla traiettoria, quasi da fermo. Per ridurre se non a zero almeno vicino a zero la probabilità di cadere. Perché ora immagino il mio corpo, che prima pensavo resistente, come fatto di cristallo, che potrebbe frantumarsi per un nulla. E tutte le piastre e viti ancora presenti rotolare per terra rumorosamente.
Ogni asperità della strada, che c’era, certo, ma non diversamente dal solito, mi sembrava amplificata. Forse per la pressione delle gomme maggiore nella bici da corsa. Più probabilmente per la rigidità della postura dovuta al timore e anche per la posizione del manubrio, che ti costringe ad essere piegato in avanti.
Il ginocchio sinistro lo sento sfiorare il telaio della bici. L’assetto dell’articolazione, prima compromesso solo nel ginocchio, adesso ha una componente in più. La ricostruzione del femore con le sue possibili approssimazioni e quella vite sporgente che si fa sentire nella pressione contro il tessuto dei vestiti, muovendomi, pedalando. Una catena di giunture che sono state violentate ed ora misurano l’effetto di una riparazione che per quanto accurata lascia il segno.
Misuro l’opportunità di una pedalata più rotonda, con la possibilità di esercitare forza non solo verso il basso, ma anche nella fase di risalita della pedalata. E immagino che questo nutra i muscoli ancora deboli della sinistra, per riuscire, finalmente, a salire le scale. Avere un po’ più di confidenza anche nel camminare.
Sento il braccio sinistro farsi presente. Già, non solo il femore si è rotto. Ma la spalla è gentile e dopo una piccola fitta non si lamenta oltre.
Poi a un certo punto immagino di potermi alzare senza mani. Non l’ho mai fatto con la bici normale perché non bilanciata e non sarebbe stato possibile. Ma con la mia bici da corsa so che posso. L’ho fatto tante volte, per lunghi tratti di strada, anche in salita. Una confidenza col mezzo che però ora è da ricostruire. Da reimparare.
Mi alzo staccando le mani dal manubrio e mi sembra di vacillare, di dovere compensare chissà quali forze che mi tirano di qua e di là. “Si può fare”, penso, ma non è così immediato.
Ci riprovo dopo qualche chilometro, quando le condizioni della strada mi sembrano buone. Mi alzo lentamente e completamente, lascio sciogliere le braccia lungo i fianchi, ho la sensazione di abitare un corpo che avevo dimenticato. Quasi mi trovassi in vetta a una montagna e ho la sensazione che anche una passante mi guardi così, come stessi facendo una cosa eccezionale e io sia a un’altezza gigantesca.
Ritorno verso casa sentendo che la pedalata è buona e anche il cavalcavia si supera con maggiore disinvoltura. Entro e tranquillizzo Cinzia. Eccomi. E racconto.
«Hai fatto pace col tuo corpo», commenta Irene.

Ma la prova non prova niente, se non l’adesso, che è già diventato passato, un secondo dopo. Oggi la probabilità di cadere è la stessa. Il porfido è ancora lì. I tombini sono ancora lì. La sabbia sulla strada c’è ancora. E le ansie sociali forse si faranno meno sentire, ma ci sono ancora tutte e per superarle sarà necessaria molta energia. Più di quella necessaria per pedalare. Anche in salita.

Le persone con disabilità, e in particolare coloro che necessitano di maggiore supporto per esprimere la propria volontà, vivono costantemente questa condizione di controllo, di concessione condizionata di libertà, di impossibilità di sbagliare, di programmazione da parte di altri del proprio tempo, del proprio spazio, della propria vita.
La Legge Regionale della Lombardia 25/22 (Politiche di welfare sociale regionale per il riconoscimento del diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità), che ha recepito in maniera coerente una proposta di legge elaborata dalla Federazione LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), interviene nello spazio legislativo, e quindi sociale e culturale, per cercare di modificare questa situazione. Che vede ancora largamente prevalere un atteggiamento di protezione e assistenza rispetto alla possibilità di esercitare scelte per la propria vita.
La novità importante di quella norma è il tutte che comprende le persone con disabilità, anche quelle finora considerate oggetto di assistenza.
La Legge Delega 227/21 in materia di disabilità pone delle basi interessanti per andare in questa direzione, di coinvolgimento della persona, ma deve essere sostanziata dai Decreti che sono in corso di discussione. Con il seguito di questo mio contributo vorrei considerare e sviluppare una serie di passaggi sulla Vita Indipendente, il “Dopo di Noi”, il progetto individuale di vita e altro ancora.
(1-continua)

Il presente contributo, insieme a quelli che lo completeranno nei prossimi giorni, è già apparso nel n. 5 della testata univers@bility.it (Vannini Editoria Scientifica). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Antonio Bianchi è padre di Irene e Pietro, quest’ultimo un giovane con disabilità intellettiva. Lavora al Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa nel Policlinico di Milano. È ingegnere elettronico e consigliere della LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
Il 19 dicembre 2021 è caduto in curva, in bicicletta, riportando una frattura frammentata e scomposta del femore e dell’omero all’altezza delle articolazioni dell’anca e della spalla.

Please follow and like us:
Pin Share
Stampa questo articolo