Quando si parla a un gruppo di persone o a una tavola rotonda, a un convegno o a una classe di studenti, si dovrebbe sempre contestualizzare il concetto più adeguato, e la tesi che si vuole sostenere, usando un registro appropriato all’assemblea stessa.
Mi è capitato molte volte di essere invitato a partecipare e ad intervenire, per parlare di disabilità nelle scuole, e in questi casi la prima cosa che guardavo era il pubblico di fronte a me, osservato il quale, in un secondo tempo, pensavo a come esporre nel modo più eloquente la tematica che mi si richiedeva di argomentare.
Ma durante il viaggio per raggiungere la scuola dove andavo a parlare, la domanda su cui riflettevo era: «Che cos’è la disabilità?», oppure «Chi è il disabile?». Tutte queste domande me le facevo girare in testa, ma una volta che mi trovavo di fronte agli alunni e alle alunne capivo che queste domande erano vane, che a loro non poteva importare nulla dell’approccio antropologico o pedagogico della disabilità. Voglio dire che non dovevo partire da me, dal mio essere persona con disabilità, da tutte le mie problematiche, dal mio non camminare o dal mio non potermi muovere, dalle mie delusioni amorose, o dalle mie frustrazioni sessuali; a loro non poteva importare di meno. Piuttosto, dovevo ribaltare ancora una volta la problematica, la prospettiva e partire dal loro mondo, non più dal mio, partire dalle loro domande. La mia disabilità doveva diventare solo un pretesto per iniziare un confronto costruttivo per entrambi.
La persona che vive in un contesto disabilizzante dovrebbe smetterla di fare “il protagonista”, nel bene e nel male, smettere di vivere il proprio vittimismo, e soprattutto di “fare l’handicappato”: in buona sostanza, dovrebbe smetterla di pensare che “ogni cosa gli sia dovuta”. Dovrebbe invece sapere ascoltare le domande degli altri, perché non è detto che le domande siano sempre e solo: «Perché non cammini o da quanto non cammini? Perché parli male? Sei potente sessualmente? Puoi fare l’amore». Queste sono curiosità che fanno parte di una morbosità estrema.
Nella mia esperienza, le domande che mi sono spesso sentito rivolgere nelle scuole sono: «Quali sogni hai? Come ti pensi se non fossi in carrozzina? Ti sei mai innamorato? O qualcuno si è mai innamorato di te?». Sono queste le domande che sanno andare al di là di ogni tipo di disabilità, che fanno parte dell’uomo e della donna, che vanno nell’intimo di una persona; sono le domande che mi hanno fatto capire una cosa importante, che io non sono un disabile, che sono una persona come quei ragazzi e quelle ragazze, ma, ancora di più, che loro mi vedono come persona e non come “un disabile”.
Dipende sempre da come si pone la persona con disabilità di fronte all’altro. Se io mi comportassi “da vittima”, loro mi considererebbero una vittima di questa società, di questo tempo, ma se invece mi pongo come un loro pari, quegli studenti mi considereranno come loro.
Ecco perché mi trovo qui a scrivere queste riflessioni. Perché sono contrario a ogni forma di “esibizionismo della disabilità”, e soprattutto perché non credo che parlare di sessualità sia chiedersi come una persona con disabilità pratichi il sesso, senza parlare poi del fatto che non si fa mai distinzione fra sesso e sessualità, argomento che ho già più volte affrontato su queste stesse pagine.
Trovo superfluo andare in giro a provocare gratuitamente alunni o chi per essi, facendo domande assurde e fuori luogo, del tipo: «Secondo voi un disabile in carrozzina come può fare sesso? Che posizioni adotta? Usa sex toys?». Queste domande le trovo assai volgari, di cattivo gusto, perché invadono e violentano l’intimità di chi le ascolta e soprattutto di chi vive la problematica della disabilità.
Ecco perché vorrei richiamare l’attenzione sull’importanza del contesto, quando ci si ritrova a tenere incontri o dibattiti, e dei termini che vengono utilizzati.
Come ci fa riflettere bene Roberto Pecchioli in un suo articolo, i termini e le parole hanno una loro importanza, una forza creatrice e distruttrice che a volte genera confusione e disorientamento. Egli ci accompagna in un excursus dove ci fa notare la pericolosità di questo nuovo linguaggio inclusivo, tanto sbandierato ad esempio dalle Università americane, come la Stanford University con il suo dizionario Guida al linguaggio nocivo; alcune parole sono addirittura recepite dall’Accademia della Crusca. Perché il pericolo del termine inclusivo il più delle volte è che nega ed elide il sesso, il genere, la condizione e nasconde il vero sé delle persone, confondendo così la realtà di ognuno sino a fare dubitare dei propri occhi. È inutile omettere per diplomazia parole come “sordo” o “cieco”, “alzarsi in piedi”, “zoppo”, “storpio”, “basso”, “menomato”, “portatore di handicap”, perché la situazione e l’oggettività di ogni persona rimane quella che è; anzi, la sottrazione delle parole impedisce di esprimere ciò che invece finiamo per constatare “per assenza”, demonizzando una parola, come suggerisce Pecchioli: «Impedisce di vedere, quindi valutare, quello che abbiamo davanti agli occhi, confrontare, descrivere». Lo stesso filosofo José Ortega y Gasset rifletteva: «Io sono io e la mia circostanza».
Non vorrei sembrare un puritano o un censore, se è vero che da quasi quattro decenni, ormai, mi occupo di sessualità e disabilità, ed è proprio con l’esperienza e con quella che chiamo “la mia nuova pedagogia della persona con disabilità” che posso dire: attenzione ai termini che vengono utilizzati! E attenzione anche al pudore dell’altro, perché la sessualità è anche la globalità di sensazioni, emozioni e pulsioni che ogni persona vive, che ogni persona è.
Se mi trovassi oggi a una tavola rotonda, con addetti ai lavori sul mondo della disabilità, allora sì che affronterei il tema del sesso e della sessualità con nessun tipo di limitazione e pudore, in un ambiente qualificato e di fronte a persone che vivono per la loro professionalità l’argomento e che capiscono il linguaggio che vado ad adottare. Perché questi esperti che lavorano quotidianamente insieme a persone con disabilità fisica, con paraplegia, tetraplegia ecc., spesso si sentono rivolgere quesiti cui a loro volta dovranno dare risposte efficaci e ben chiare; ossia a domande del tipo: «Potrò continuare ad avere una mia vita sessuale?», «Potrò diventare una madre, o un padre?». E così, in questo contesto specialistico, le risposte dovranno essere chiare e precise, ma contestualizzate alla patologia del paziente, capendo e valutando con l’équipe coinvolta come la persona con disabilità potrà vivere “il proprio mondo sessuale”.
Allora lo ribadisco ancora una volta: attenti alle parole, perché con esse si possono fare danni in contesti sbagliati.