Vita indipendente, “Dopo di Noi” e “autodeterminazione partecipata”

di Antonio Bianchi*
«Con il seguito di questo mio contributo – aveva scritto Antonio Bianchi nel testo introduttivo cui avevamo dato spazio nei giorni scorsi (“Poter sbagliare, oltre ogni condizione di controllo”) - vorrei considerare e sviluppare una serie di passaggi sulla Vita Indipendente, il “Dopo di Noi”, il progetto individuale di vita e altro ancora». Riprendiamo quindi a dare spazio alla sua trattazione

Giovane con disabilità che ride, seduto presso un tavolo di cucina«Con il seguito di questo mio contributo – aveva scritto Antonio Bianchi nel testo introduttivo cui avevamo dato spazio nei giorni scorsi (Poter sbagliare, oltre ogni condizione di controllo) – vorrei considerare e sviluppare una serie di passaggi sulla Vita Indipendente, il “Dopo di Noi”, il progetto individuale di vita e altro ancora». Riprendiamo quindi a dare spazio alla sua trattazione.

Il binomio “è possibile?” – “è possibile”
Nel 2019 il Centro Studi Erickson organizza il secondo convegno internazionale Sono adulto. Disabilità, diritto alla scelta e progetto di vita [se ne legga la nostra ampia presentazione, N.d.R.]. Nelle sessioni plenarie e soprattutto nei diversi workshop due approcci si propongono, per la verità senza un adeguato spazio di confronto diretto, ma parallelamente. Forse perché se ne percepisce la conflittualità.
Il primo approccio è quello di chi si domanda – chi con prospettiva di ricerca chi con prospettiva più operativa – se sia possibile o no parlare di autodeterminazione per le persone con “gravi disabilità”. Si utilizzava e si utilizza ancora questa espressione, «per capirci, per semplificare, perché la legge è scritta così e nei bandi siamo obbligati a scrivere così». E si continua a promuovere una cultura della disabilità come fatto personale, che riguarda la persona come sua caratteristica peculiare e conseguentemente le persone legate da una relazione familiare. Qui preferiamo usare l’espressione “persone con maggiore necessità di supporto”. È possibile parlare di autodeterminazione per le persone con maggiore necessità di supporto? La domanda sembra interessante e infatti apre a numerose speculazioni, sia sul piano della ricerca, prevalentemente in campo psicologico, sia sul piano esperienziale, operativo. È una domanda che però costringe a stare al confine del tema, senza entrare, senza confrontarsi con cosa possa significare vivere spazi di autodeterminazione per chi ha più difficoltà ad esprimerla. Una curiosità intellettuale che continua a considerare la persona con disabilità come oggetto di ricerca o di cura, guardandola sotto un vetrino al microscopio.
L’altro approccio modifica la domanda in un’affermazione. L’autodeterminazione è possibile per le persone con disabilità con maggiore necessità di supporto. Apparentemente si tratta di un’affermazione da giustificare, da corroborare con dati di ricerca. Invece l’affermazione ha un carattere di assioma. E l’importante diventa cercare di dare risposta alla domanda che subito si affaccia: come? Dare forma a possibili risposte che permettano alla persona di esprimere una scelta, libera, significativa. Non un punto di arrivo rispetto alla domanda del primo approccio, quindi, ma un punto di partenza che apre all’esplorazione creativa e scientifica e umana e sorprendente e faticosa di come fare in modo che questa scelta abbia spazio ed energia per esprimersi.
Proseguendo assumerò il secondo approccio.

Realizzazione grafica dedicata alla Legge 112/16Il nodo “Dopo di Noi / Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità
Intrecciato al binomio sopra considerato, ma con una sua specificità, c’è il nodo conflittuale fra ciò che sta alla base dell’espressione “Dopo di Noi”, che sposta il focus sulla famiglia marginalizzando la persona con disabilità, e l’individualità, in qualche modo la pretesa di bastare a se stessi, presente in alcuni passaggi e in certo grado nello spirito stesso della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Il nodo è proposto come centrale dall’intervento di apertura del percorso formativo sulla Legge 112/16 [“Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare”, N.d.R.] dell’Agenzia per la Tutela della Salute di Milano (ATS), da parte di Matteo Schianchi, storico, docente dell’Università Bicocca di Milano e autore di numerosi testi di riferimento per il tema della disabilità, ultimo fra questi Disabilità e relazioni sociali. Temi e sfide per l’azione educativa del 2021 (il breve intervento può essere ascoltato a questo link, all’interno della più ampia introduzione al percorso formativo, disponibile nel canale Facebook della Federazione LEDHA).
Lo sguardo che porta a concettualizzare il “Dopo di Noi” è legato a quello che Giovanni Merlo chiamava «approccio familistico» in un intervento pubblicato nel n. 4 di Universability.it. La famiglia è considerata il “naturale” spazio in cui la persona riceve le risposte sociali e l’arrivo di un figlio con disabilità è ancora oggi considerato come una “disgrazia” o una “benedizione”, secondo la prospettiva sociale e religiosa, che la riguarda direttamente e esclusivamente. È “naturale” sia la famiglia soprattutto nelle situazioni più complesse a rispondere con impegno totale alle necessità di educazione e di cura anche sanitaria, dove occorre, del bambino e poi dell’adolescente. E quando si affaccia l’età adulta, la richiesta di distacco diventa complessa, innaturale, quasi violenta. E il venir meno della capacità di risposta piena e incondizionata dei genitori e per estensione anche dei fratelli e delle sorelle viene letto come passaggio drammatico. È quindi comprensibile la genesi del costrutto linguistico e culturale del “Dopo di Noi” e di tutta l’attenzione anche legislativa che le è stata dedicata.

Verdugo, paradigma di appartenza alla comunità
Il paradigma di appartenenza alla comunità fissato da Miguel Angel Verdugo

In questo scenario, però, la persona con disabilità è solo oggetto di assistenza, che potrà avere qualità più o meno alta, ma siamo sempre a cavallo fra i paradigmi che Miguel Angel Verdugo chiama «istituzionale» e «della integrazione». Chi assume le decisioni è o il solo medico o, in modo più allargato, un’équipe multidisciplinare, con la valutazione multidimensionale, ma sempre in assenza della persona con disabilità.
Questo approccio, che ha occupato fin qui l’intero spazio del dibattito e delle prassi nella risposta sociale alla vita adulta delle persone con disabilità, è ancora largamente presente e maggioritario anche nel contesto italiano. Approfondiremo questo nel paragrafo successivo Sì, siamo d’accordo col principio, ma…. Qui basti segnalare quanto l’approccio intessa le politiche concrete che determinano le condizioni di vita delle persone, anche molto al di là dell’avanzamento nei documenti ufficiali e nella retorica inclusiva delle politiche sia istituzionali, sia anche dell’àmbito cooperativo e associativo.
A fronte di ciò arriva la Convenzione ONU, con la sua carica rivoluzionaria e cambio di paradigma. Che Miguel Angel Verdugo chiama di «appartenenza alla comunità».
Nel citato testo Disabilità e relazioni sociali, Schianchi rileva come la Convenzione sia invocata per lo più in chiave difensiva, invece che come strumento di lavoro. Nonostante la velocità delle comunicazioni quasi istantanee a livello globale, la Convenzione, quasi fosse un “documento del Concilio di Trento”, fatica ad arrivare negli spazi di vita delle persone, anche se sono trascorsi 17 anni dalla sua promulgazione e 14 dalla sua assunzione nella legislazione italiana. Viene usata come preambolo per i Piani di Zona e per le Leggi Regionali, ma come spesso accade anche per la Costituzione Italiana, è considerata utopica, distante, come puro elemento di auspicio a cui tendere, in un tempo infinito.
Nel nostro Paese numerosi sono i tentativi di uscire da questo equivoco e particolarmente significativo è quello del DiVI di Torino (Centro Studi per i Diritti e la Vita Indipendente), coordinato da Cecilia Marchisio, con approfondimento teorico scientifico ed esperienziale.
Ma l’approccio affermativo dei diritti naturali appare a molti come inapplicabile e quindi irrilevante in una casistica la cui ampiezza per alcuni si riferisce alle condizioni di disabilità più complesse con maggiore necessità di supporto e per altri alla molto più numerosa platea di tutte le persone con disabilità intellettiva e relazionale, o afferenti l’area della salute mentale.
Con ancora maggiore forza, il modello sociale di disabilità viene spesso portato ad esempio di distanza dalla realtà, considerando ideologico e senza conseguenze applicabili, se non per le sole persone con disabilità solo motorie e sensoriali, il suo impianto argomentativo e rivendicativo.

Giovane con disabilità che lavora in cucinaAmbiguità del termine vita indipendente
Su questo nodo si gioca anche l’ambiguità dell’espressione utilizzata dalla Convenzione ONU, espressione che ogni volta ha necessità di essere caratterizzata, specificata: vita indipendente nel senso dell’articolo 19 della Convenzione, di possibilità di scelta concreta della persona rispetto agli àmbiti significativi per la propria vita.
In rete si leggono ancora oggi documenti in cui Associazioni di persone con disabilità riportano il concetto legato all’esperienza dell’Independent Living che, per quanto sia stato cruciale anche per lo sviluppo del concetto riportato nella Convenzione, si riferiva alla ristretta situazione delle persone con disabilità motoria, e la risposta privilegiata in quel senso era ed è quella dell’assistenza personale autogestita.
Quello di cui parlava la Proposta di Legge della LEDHA, divenuta poi la Legge Regionale della Lombardia 25/22 (Politiche di welfare sociale regionale per il riconoscimento del diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità), e di cui parla la Legge Delega 227/21 in materia di disabilità, non significa necessariamente “andare a vivere da solo”, concetto a cui il costrutto linguistico vita indipendente sembra rimandare in modo più immediato e comune. Sarebbe stato opportuno individuare un costrutto meno ambiguo? Probabilmente sì. Qualcuno propone “autodeterminazione partecipata”. Ma anche rimanendo su questo che abbiamo e stando alla definizione dell’articolo 19 della Convenzione, possiamo dire che, come per l’autodeterminazione, la vita indipendente sia possibile per tutti, in grado diverso, utilizzando tutti gli strumenti necessari e che nel corso di questi decenni sono stati sviluppati e si sviluppano. Di questo mi occuperò specificamente più avanti.

Matteo Schianchi, "Disabilità e relazioni sociali", 2021
Il libro del 2021 di Matteo Schianchi, “Disabilità e relazioni sociali”

Sì, siamo d’accordo col principio, ma…
Nel dibattito su risposta sociale a carattere protettivo assistenziale ed espressione del proprio protagonismo, non assistiamo come si potrebbe pensare a una polarizzazione con le Istituzioni da una parte e il mondo cooperativo e associativo dall’altra. Si tratta in realtà di un confronto che attraversa in modo conflittuale e trasversale entrambi i campi.
La Convenzione ONU e il piano dei diritti che vengono promossi sono vissuti da molti come inadeguati per dare risposte concrete.
Concretezza: questa è la parola che spesso viene invocata per non affrontare mai un necessario cambiamento strutturale, che naturalmente coinvolge non solo qualche modifica ai servizi, ma un loro ridisegno dentro una messa in discussione profonda.
Ci sono motivazioni storiche, culturali, profonde in queste prese di posizione e non ultime anche economiche, per il coinvolgimento a livello di gestione del mondo cooperativo e associativo.
La stratificazione delle rappresentazioni sociali, come scrive Carlo Lepri nel 2011, in Viaggiatori inattesi. Appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili, solo apparentemente sostituisce le più antiche con l’avvento delle più recenti. In realtà, come Lepri dice nella sua argomentazione, gli strati antichi sono ancora lì, pronti a manifestarsi con tutta la loro forza. Sia la rappresentazione dell’errore di natura da correggere, nell’infinita operazione di riabilitazione, sia nell’ancora più profonda e antica rappresentazione del “figlio del peccato”, senso di colpa che i genitori devono espiare attraversando tutte le dimensioni del dolore, della sofferenza, sublimandola.
Il concetto di liminalità evidenziato da Schianchi in Disabilità e relazioni sociali, ben rappresenta questa situazione. Né di qua né di là. Così l’Autore dipinge la condizione della persona con disabilità. Non disumana, ma neppure completamente umana. Una certa indeterminatezza per la verità è dell’essere umano. Che se cerca di afferrare con nettezza i contorni della sua storia, l’inizio e la fine, è colto da vertigine, tutto sembra perdere senso. E allora ci si rifugia nel mentre. Nelle occupazioni dell’oggi. Ma esistere è più che vivere, dice ancora l’Autore.
La ricerca di uno spazio di consapevolezza possibile per la persona con disabilità, come per ciascuno, è uno spazio individuale o con una dimensione anche sociale? Ne proverò a dire poco oltre. Qui mi sembra necessario dire che per il mondo cooperativo e quello associativo sia necessario un confronto franco e rispettoso per uscire dalle ambiguità che hanno caratterizzato fin qui l’adozione della Convenzione ONU come strumento. Sì, siamo d’accordo col principio, ma…
(2-continua)

Il presente contributo, insieme a “Poter sbagliare, oltre ogni condizione di controllo”, già pubblicato (a questo link) e a quello che lo completerà nei prossimi giorni, è già apparso nel n. 5 della testata univers@bility.it (Vannini Editoria Scientifica). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Antonio Bianchi è padre di Irene e Pietro, quest’ultimo un giovane con disabilità intellettiva. Lavora al Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa nel Policlinico di Milano. È ingegnere elettronico e consigliere della LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
Il 19 dicembre 2021 è caduto in curva, in bicicletta, riportando una frattura frammentata e scomposta del femore e dell’omero all’altezza delle articolazioni dell’anca e della spalla.

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