Una mia recente riflessione pubblicata su queste stesse pagine, riguardante le misure da predisporre a tutela della figura del caregiver in Italia, ha suscitato un confronto pubblico. Ringrazio pertanto Alessandra Corradi, presidente dell’Associazione Genitori Tosti in Tutti i Posti, che ha replicato alle mie osservazioni con lo scritto La complessa realtà dei caregiver familiari (e non) nel nostro Paese e Alessandro Chiarini e Caterina Landolfi, rispettivamente presidente e componente del Comitato Esecutivo del CONFAD (Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilità), che invece hanno prodotto quest’altro scritto Per una Legge adeguata sui caregiver familiari.
Nei due contributi sono stati espressi dei rilievi critici in merito a qualche mia posizione. Dunque, con spirito costruttivo, propongo ulteriori riflessioni a partire da alcune delle considerazioni avanzate nei due testi citati.
Nel suo contributo Corradi osserva che la pronuncia con cui, nel 2022, il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ha accolto il ricorso di Maria Simona Bellini, una caregiver familiare italiana, sostenendo che la mancanza di riconoscimento giuridico e di sostegno ai/alle caregiver familiari ha comportato una violazione dei diritti umani suoi, di sua figlia e del suo partner, entrambi persone con disabilità non autosufficienti di cui lei si prende cura quotidianamente, non si applichi alla «realtà dei caregiver familiari (e non) in Italia [perché essa] è assai più complessa».
In merito a questa argomentazione segnalo che non ho mai sostenuto il contrario, la citazione ha un semplice valore esemplificativo del fatto che persino un’autorità indipendente, qual è appunto il Comitato ONU, ha riconosciuto che i/le caregiver italiani sono esposti/e a violazioni dei diritti umani.
Corradi ribadisce poi una posizione che porta avanti da sempre: «Le tutele per i caregiver familiari devono comprendere tutto ciò che riguarda lo status di lavoratore: l’assicurazione per infortuni, uno stipendio che ti permetta di vivere dignitosamente, le ferie, la malattia, la pensione, il che implica che ad una certa età puoi riposarti finalmente e qualcuno prenderà il tuo posto». Omette però di replicare alla mia argomentazione che stipendiare il/la caregiver significa trasformare un rapporto informale, in un rapporto contrattuale. Le domande a cui Corradi non ha risposto sono: i rapporti informali (familiari e non) non rischierebbero di essere snaturati da tale trasformazione? Che potere contrattuale avrebbe la persona con disabilità se la cura prestata dal/dalla caregiver stipendiato/a non rispondesse ai suoi desideri e alle sue preferenze? Inoltre, visto che la larga maggioranza dei caregiver sono donne, siamo sicuri/e che sia una buona idea promuovere politiche che, ancora una volta, “trattengono le donne in casa”?
Afferma Corradi: «Il caregiver è un lavoratore, non sceglie di assistere, ma vi è costretto per la lacuna esistente nel nostro sistema sociosanitario discendente da un vuoto normativo, e solo grazie a questo lavoro il familiare assistito e amato vive una vita dignitosa». Ritengo che questa affermazione sia vera solo parzialmente. Concordo sul fatto che esista una lacuna di sistema e un vuoto normativo, e che questi vadano colmati. Ma, almeno nel mio caso, non è vero che la cura non sia stata una scelta. Per quasi 28 anni sono stata la compagna di vita di un uomo con disabilità completamente non autosufficiente (era tale quando ci siamo conosciuti), e col tempo sono divenuta anche la sua caregiver convivente. Per scelta, senza alcuna costrizione, senza essere parente, per solidarietà e condivisione. Ho svolto questo ruolo per 15 anni.
Personalmente non ho alcun problema a sostenere che vadano tutelati i/le caregiver che prestano cura «perché costretti/e», è Corradi che disconosce il valore e la rilevanza dell’assistenza prestata da questi soggetti “anomali e imprevisti”, che prestano cura sebbene non siano obbligati, non si lamentano della loro scelta e non vogliono essere pagati per questo.
Scrive ancora Corradi: «Esiste di tutto, è vero, ma continuare ad insistere sugli abusi che potrebbero patire gli assistiti, come viene fatto, è qualcosa di malsano e offensivo nei confronti di chi si sacrifica in tutto e mai si sognerebbe di nuocere al proprio caro». Corradi parla di tali abusi come di una mera eventualità (usa il condizionale “potrebbero”), ma purtroppo gli abusi e le violenze contro le persone con disabilità commessi in àmbito domestico sono una certezza documentata, in particolare quelli commessi sulle donne, al pari di quelli che si riscontrano nelle RSA e RSD (Residenze Sanitarie Assistenziali e Residenze Sanitarie Disabili), che lei cita. Neanche a me piace parlarne, ma l’unico modo che ho trovato per denunciare il fenomeno e provare a contrastarlo è scriverne, e considero una forma di connivenza non farlo.
Corradi, infine, bolla le mie riflessioni come «elucubrazioni letterarie», ma, come ho precisato, io sono anche una caregiver, dunque scrivo a partire dalla mia esperienza, come fa Corradi, solo che, a differenza sua, non provo a delegittimare le sue affermazioni con espressioni fantasiose.
Ella afferma che io porrei sullo stesso piano la situazione di chi presta assistenza ventiquattr’ore su ventiquattro e le altre. Non è così. Infatti, ciò che propongo è che le tutele debbano essere proporzionate alla qualità e alla quantità di cure prestate, a prescindere dalla convivenza e dalla parentela. Se, ad esempio, una persona presta assistenza ad un’altra con disabilità per 16 ore al giorno, mentre nelle restanti ore viene sostituita, questa persona merita tutele proporzionate all’assistenza prestata, e non dovrebbe avere rilevanza se ha il domicilio da un’altra parte e non è un/a parente, perché senza quelle 16 ore di cura gratuita giornaliera quella persona con disabilità finirebbe in una struttura. Pertanto, se vogliamo prevenire l’istituzionalizzazione delle persone con disabilità, vanno riconosciute e tutelate proporzionalmente le diverse situazioni, non solo quelle estreme, la cui drammaticità e necessità di tutela non è mai stata messa in dubbio.
Veniamo ora al testo di Chiarini e Landolfi i quali ribadiscono che la rivendicazione del CONFAD è quella finalizzata al «riconoscimento del caregiver familiare convivente», ma è proprio la restrizione della platea dei beneficiari ai soli familiari ciò che io contesto.
Condivido con gli Autori che sia «la società tutta, comprese le Istituzioni, che ancora oggi scaricano mollemente e ipocritamente i buchi del sistema assistenziale sulle famiglie», ed è proprio per questo che insisto nel voler promuovere politiche che contemplino situazioni in cui a prendersi cura non siano solo i parenti/familiari, ma anche altri soggetti. Quelli che in precedenza ho chiamato soggetti “anomali e imprevisti”, la cui esistenza non è ipotizzata né nel testo di Corradi, né in quello di Chiarini e Landolfi. Tanto è vero che, in merito al caregiver scelto al di fuori della famiglia, questi ultimi si sentono di precisare che «non ci si riferisce più ad un/a caregiver familiare, ma ad una prestazione di lavoro. Parliamo cioè di badanti, di OSS (Operatori Socio Sanitari), di assistenti». Ma io non mi riferisco affatto a queste figure professionali.
Chiarini e Landolfi sottolineano di non appoggiare «le Istituzioni nel voler “cristallizzare” un welfare familistico», e che CONFAD non è «complice inconsapevole di una visione familistica idealizzata», però invece di promuovere il riconoscimento di qualunque soggetto si prenda cura in modo continuativo, quantitativamente significativo e gratuito, continuano a restringere la platea dei soggetti da tutelare al solo o alla sola “caregiver familiare convivente”, e anche quando parlano di questa rivendicazione come di un «un primo step», non riescono proprio a uscire dalla cerchia familiare. Scrivono infatti: «In seguito sarà possibile individuare provvedimenti adeguati in modo proporzionale al grado di impegno di cura dei caregiver familiari» non conviventi.
Affermano poi che la «cura condivisa con la comunità», da me caldeggiata, rischi, ad oggi, di essere ancora un’utopia, e in effetti se continueremo a promuovere misure che sanciscono che l’unico soggetto meritevole di tutele non sia il/la “caregiver”, ma solo il “caregiver familiare”, stiamo dicendo a tutti gli altri componenti della comunità che prendersi cura non è affare loro, che se nell’àmbito di una relazione (anche semplicemente amicale) dovessero contemplare tale opzione, è meglio che se la facciano passare, perché il sistema riconosce e tutela solo “quelli/e costretti”.
Hanno davvero senso questi paletti che vengono dati per scontati? Io credo invece che tutti e tutte possiamo imparare a costruire relazioni che non si basino sulla costrizione, e che ognuno e ognuna possa contribuire ad edificare una società come quella delineata nel Manifesto della cura (Edizioni Alegre, 2021) elaborato dal Care Collective, che ho assunto come modello teorico di riferimento (se ne legga al seguente approfondimento).
Qualche anno fa, nel 2018, divulgai una notizia sulla vicenda di Elena Cecchini, una maestra della scuola primaria Annika Brandi di Riccione (Rimini), che aveva coinvolto i propri alunni nelle operazioni di pronto intervento nel caso in cui Noah, un allievo che all’epoca aveva 9 anni e soffriva di epilessia, avesse avuto una crisi. In quella circostanza, ai diversi alunni e alunne erano stati assegnati incarichi specifici da svolgere, mentre la stessa maestra soccorreva il bambino. Incarichi come prendere il farmaco dal secondo cassetto, prendere il cuscino dall’armadietto, chiamare i bidelli e gli insegnanti delle classi addicenti. Gli incarichi erano annotati su un cartellone appeso in classe, ed erano previste una turnazione e delle sostituzioni (necessarie a garantire che nessun incarico rimanesse scoperto). Di questa organizzazione la maestra non parlò neanche coi genitori di Noah, che infatti scoprirono la cosa solo per caso (la storia è pubblicata qui).
È un episodio piccolo, ne convengo, il ruolo di caregiver è questione ben più impegnativa. Ma quella maestra ha veicolato in una scuola primaria il messaggio preziosissimo che la cura è una faccenda che compete alla comunità (nel caso specifico, alla comunità scolastica).
Ecco, io credo che tale principio si applichi anche alla società e che non si tratti di semplici astrazioni, visto che queste modalità organizzative sono già state concretamente sperimentate dagli Anni Settanta in poi (nel citato Manifesto della cura vi sono diversi esempi). Sono un’idealista? No, più semplicemente sono stata una caregiver “anomala e imprevista” e ho fatto tesoro di questa esperienza.