Dentro alle parole c’è la vita: le scuse questa volta non bastano

Sugli articoli pubblicati recentemente dalla giornalista Concita De Gregorio e sulle parole “sbagliate” in essi contenute, diamo oggi spazio innanzitutto alla nota diffusa dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, ove si legge tra l'altro che quelle parole «sono lo specchio di una cultura discriminatoria e anti-inclusiva». Successivamente pubblichiamo la lettera inviata direttamente alla giornalista dalla Federazione LEDHA, secondo la quale «in questo caso le scuse non bastano, ci vuole una conversione»

Realizzazione grafica con lettere che escono a profusione dalla bocca di un uomo visto di profiloAll’articolo Il valore di un selfie della giornalista Concita De Gregorio e alle sue scuse contenute nel successivo pezzo La morte del contesto, abbiamo dedicato ieri l’editoriale del nostro direttore responsabile Antonio Giuseppe Malafarina (Grosso guaio linguistico da parte di un’affermata esperta di comunicazione), riferendo anche della dura presa di posizione di Vincenzo Falabella, presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e dei numerosi altri contributi ricevuti in redazione sul medesimo tema.
Nel frattempo registriamo con particolare piacere, vista anche la citazione di Franco Bomprezzi, che fu direttore responsabile del nostro giornale fino alla sua scomparsa, la seguente nota diffusa dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, dando spazio successivamente alla lettera inviata a De Gregorio dalla LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH. Questo in attesa di pubblicare nei prossimi giorni ulteriori opinioni.

La disabilità utilizzata come insulto, per commentare un episodio di cronaca che nulla a che vedere con la disabilità stessa. Le polemiche scatenate dal commento di Concita De Gregorio (Il valore di un selfie, la Repubblica del 4 agosto 2023) confermano quanto l’abilismo sia ancora profondamente radicato nella nostra cultura, nonostante la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, sottoscritta dall’Italia nel 2007, abbia da tempo spostato il focus dall’ambito clinico-patologico a quello dei diritti umani, tracciando un percorso virtuoso di pari opportunità e dignità.
Il contesto e l’abuso del politicamente corretto, a cui fa riferimento De Gregorio all’indomani della sua infelice uscita, nella nota con cui chiede “sommessamente scusa”, non hanno nulla a che vedere con la vicenda, ma appaiono ancora una volta fuorvianti e strumentali. Fra l’altro la collega fa ricorso a termini come “normodotati” ed “handicap” che da molto tempo non appartengono al linguaggio giuridico e internazionale.
Non si tratta di sfumature semantiche, ma del minimo che un giornalista informato dovrebbe sapere, perché sono lo specchio di una cultura discriminatoria e anti-inclusiva. Le parole sono contenitori, ricordava nel 2014 il compianto Franco Bomprezzi, nella sua vita spesa contro i pregiudizi. Dentro c’è la vita, ci sono le persone, con la loro dignità [grassetti così nell’originale, N.d.R.].
Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti

La vicenda è semplice: per stigmatizzare il comportamento di alcuni influencer che hanno rotto una statua e scattarsi un selfie da postare sui loro canali social, lei li ha definiti semplicemente degli “handicappati”. Utilizzando termini molto crudi e duri. Senza lesinare descrizioni molto particolareggiate che rimandano a un’idea molto precisa delle persone con disabilità.
Quella adottata nel testo della sua rubrica del 4 agosto non è una scelta particolarmente originale. Molti degli insulti e delle parolacce che utilizziamo per denigrare le persone che riteniamo nostri avversari o semplicemente meritevoli del nostro giudizio negativo sono termini come “idiota”, “imbecille”, “cretino”. Parole che in passato hanno designato, anche da un punto di vista medico e scientifico, la condizione delle persone con disabilità.
Il motivo è semplice. Lei considera questi influencer (per il comportamento che hanno avuto) delle persone inferiori, indegne di appartenere alla nostra società almeno fino a quando non troveranno il modo di redimersi in qualche modo. Per spiegare questo – per dirlo il più duramente possibile – li definisce degli “handicappati”.
Perché in fondo lei – come grandissima parte dell’umanità – pensa che le persone con disabilità siano inferiori, che valgano meno e siano meno umane degli altri. Quello che lei ha messo in atto è un processo di inferiorizzazione che non colpisce solo le persone con disabilità, ma anche tante altre minoranze.
Non è questione di “politicamente corretto”. Il punto non è l’utilizzo di termini giusti o sbagliati. E soprattutto non è questione di contesto. Qui non c’è nessun contesto. È questione di sentimento, è questione di pensiero, è questione di cultura. Evidentemente, nonostante i buoni studi e le buone intenzioni lei ancora pensa che le persone con disabilità valgano meno degli altri.
In questo caso le scuse non bastano, ci vuole una conversione.
LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità)

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