Le parole possono rappresentare finestre o muri. Le parole sono l’arma più potente di cui ognuno di noi è dotato. Siamo tutti muniti di quest’arma, sempre carica, e senza sicura, sempre pronta a sparare. Un’arma che può ferire, mortalmente o solo superficialmente, ma se usata nel modo più adeguato, potrebbe aiutare, lenire i dolori, scalfire i dubbi e le insicurezze. Un’arma che non dovrebbe mai essere puntata al cuore dell’altro.
Le parole possono creare distanza o aiutare a comprendersi. Le stesse parole usate in contesti diversi possono essere appropriate, confondere o addirittura offendere, ma se utilizzassimo quelle giuste, potrebbero diventare le fondamenta del mondo inclusivo in cui abitare tutti insieme.
L’identità sociale della persona con disabilità nel corso della storia dell’umanità è stata oggetto di alterni destini, che si sono concretizzati, spesso, in epiteti denigratori: da “castigo degli dei” presso la civiltà greco-romana ad “espressione di forze malefiche e diaboliche” nel Medioevo, da “malato incurabile” nell’Ottocento, a “vita che non merita di vivere” durante il nazifascismo a “diversamente abile” nella società odierna. Definizione quest’ultima ipocrita al pari di quelle precedenti, perché, anche se non disumana, categorizzante.
Si deve arrivare ad anni molto prossimi a noi, nel 2006, grazie alla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, per vedere riconosciuta la relazione tra persona con disabilità e ambiente e per vedere sancito il diritto umano di esistere.
Grazie alla ricerca, negli ultimi decenni è emersa una sempre maggiore sensibilità, nel mondo giuridico e scientifico ma anche nella società, in ordine alle problematiche dell’inclusione in condizioni di uguaglianza e parità tra le persone. Perché le parole non riflettono solo le relazioni, ma le creano.
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