L’evoluzione del linguaggio ha i suoi tempi. Certe parole si infilano nella comunicazione immediatamente, come gli inglesismi, ma vogliono tempo per essere assimilate da una vasta quantità di pubblico per uscire dal linguaggio di settore ed entrare nel dizionario.
Non deroga dalla sequenza il linguaggio della disabilità. Siamo nella fase di mezzo e dobbiamo attenerci a ciò che dal linguaggio specialistico sta entrando in quello comune per, speriamo presto, rinnovare i lemmi del vocabolario.
Dopo il “caso Concita De Gregorio”, dunque, di cui ho scritto su queste stesse pagine, c’è una bella novità dall’Ordine dei Giornalisti e la novità riguarda la comunicazione sulla disabilità, tema che farà parte di uno dei corsi di aggiornamento deontologico con una guida apposita, iniziativa apprezzata anche dal Ministero per le Disabilità. L’ha fortemente voluta il consigliere dell’Ordine Lorenzo Sani, con un’idea condivisa dal presidente Carlo Bartoli, anche con il contributo di chi scrive e di Claudio Arrigoni, che ha contribuito a scrivere anche questo pezzo.
Siamo passati, anche se qualcuno non se ne è accorto, dalla cultura dell’handicap a quella della disabilità, come anni fa siamo transitati da quella degli invalidi a quella dell’handicap. Cosa ci riservi il futuro non è dato sapere, intanto ci avvaliamo delle fonti dell’attualità, che sono quelle che ci hanno portato fin qui.
Il primo documento delle Nazioni Unite che definisce la persona disabile è del 1975, con la Dichiarazione ONU sui Diritti delle Persone Disabili [titolo originale del 1975 “Dichiarazione dell’ONU sui Diritti dei Portatori di Handicap”, N.d.R.] che, in breve, sancisce il diritto delle medesime a essere trattate in maniera egualitaria rispetto agli altri.
Il punto uno definisce la persona disabile, ed è la prima volta che ciò accade in un documento universale: «“persona disabile” si intende qualsiasi persona impossibilitata ad assicurare da sé, in tutto o in parte, le necessità di una normale vita individuale e/o sociale, a causa di una deficienza, congenita o meno, delle sue condizioni fisiche o capacità mentali».
Per seguire l’excursus della terminologia sulla parola disabilità, invitiamo alla consultazione dell’articolo di InVisibili, blog del «Corriere della Sera.it», intitolato Disabilità, un vocabolo da riscrivere.
In breve, nel 1980 viene codificato il termine handicap a cura dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ed è la stessa organizzazione che nel 2001 riforma la sua stessa visione della disabilità del 1980 varando l’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. Classificazione che manda in soffitta l’handicap.
Nel 2006 torna l’ONU ad accogliere un nuovo documento sui diritti delle persone con disabilità, cioè la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Che nell’insieme fornisce ampie linee guida sulla relazione con la disabilità.
Sostanza: le fonti cui attingere per il buon linguaggio sulla disabilità sono l’OMS e l’ONU. Non roba da poco.
Arrigoni e io facciamo poi affidamento sull’NCDJ (National Center on Disability and Journalism), una delle massime autorità sul linguaggio a livello internazionale, al quale hanno fatto riferimento anche le recenti guide sul tema di Intesa San Paolo (Le parole giuste. Media e persone con disabilità) e quella dell’Agenzia delle Entrate (Disabilità. Iniziamo dalle parole).
Queste le fonti cui attingere per il buon linguaggio sulla disabilità. Linguaggio che non è fatto solo di termini, ma anche di atteggiamenti, espressioni e di ogni pratica comunicativa dedita a identificare la modalità con cui ci relazioniamo con gli altri.
Sia Arrigoni che il sottoscritto teniamo corsi sul linguaggio e non siamo gli unici. E meno male, perché più siamo e più possibilità abbiamo di migliorare la diffusione della corretta cultura della disabilità.
Come riferito anche su queste pagine, l’Ordine dei Giornalisti, dopo il “caso Concita De Gregorio”, è intervenuto con un severo comunicato di cui ci piace sottolineare questo paragrafo sulle parole: «Non si tratta di sfumature semantiche, ma del minimo che un giornalista informato dovrebbe sapere, perché sono lo specchio di una cultura discriminatoria e anti-inclusiva. Le parole sono contenitori, ricordava nel 2014 il compianto Franco Bomprezzi, nella sua vita spesa contro i pregiudizi. Dentro c’è la vita, ci sono le persone, con la loro dignità».
Franco Bomprezzi, amico e maestro di entrambi noi autori di questo articolo, nonché direttore responsabile per molti anni di «Superando.it» e padre fondatore del blog InVisibili, aveva già pubblicato un decalogo sul linguaggio nel lontano 1998 (disponibile a questo link).
Vediamo dunque la novità, che novità non è del tutto. A maggio la ministra per le Disabilità, Alessandra Locatelli, ha incontrato i rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti anche «per sensibilizzare i colleghi all’uso di un linguaggio adeguato, parole corrette e concetti validi per comunicare in merito al tema della disabilità, evitando di scivolare in stereotipi e luoghi comuni».
Il presidente dell’Ordine Carlo Bartoli, il vicepresidente Angelo Baiguini e la segretaria Paola Spadari hanno illustrato le iniziative che il Coordinamento per le Pari Opportunità del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha avviato per realizzare un volume che sarà una sorta di vademecum con un glossario.
Eh, niente… Volevamo dirvi che ci stiamo lavorando!