Ci sono luoghi nel mondo che ho sempre sentito come un dovere morale andare a visitare, o quantomeno commemorare.
Da tantissimi anni volevo recarmi ad Auschwitz, ma non sapevo mai come fare. Andare fino a Cracovia (la città più vicina) in aereo poteva essere semplice, ma poi non avrei trovato pullman accessibili per andare verso Oświęcim, che sta a un’ora abbondante da Cracovia. Andare a Cracovia in auto, per avere poi l’auto per spostarsi verso Auschwitz era la scelta migliore, ma per andare a Cracovia con la propria auto dall’Italia sono due giorni di viaggio, che diventano quattro tra andare e tornare (ricordo ai più che in Europa non trovo auto a noleggio con adattamenti al volante per disabili). Quindi bisognava prevedere un viaggio un po’ lungo, più un’intera giornata per Auschwitz.
Nel sito internet ufficiale del Museo Statale di Auschwitz era anche segnato che noleggiavano una carrozzina perché il campo (che poi sono due, uno è Birkenau, detto Auschwitz II, a qualche chilometro da Auschwitz I) era ovviamente immenso e per chi aveva difficoltà motorie erano distanze troppo grandi. Solo che io, abituata a farmi dei megaviaggi da sola, nemmeno con una carrozzina a noleggio sarei riuscita a spingermi, causa malattia muscolare dalla nascita. Quindi: per visitare Auschwitz avrei comunque avuto bisogno di qualche amico/a con me, di una carrozzina, di un’auto e di parecchi giorni a disposizione.
Questo 2023 è stato finalmente l’anno giusto. Ora possiedo già una mia carrozzina senza bisogno di noleggiarla, per svariate vicende di salute del 2022… Non posso, almeno per ora, rimettermi in viaggio da sola, quindi avevo programmato un viaggio verso Cracovia con un’amica e ovviamente con la mia auto. Avevamo pertanto tutto il necessario – da casa – e ho ricontrollato il sito ufficiale del Museo Statale di Auschwitz.
Ci tengo molto alla parola “Museo”, perché mentre Birkenau è ancora quello che era, Auschwitz è stato volutamente trasformato in museo e ormai – nel 2023 – tutti i Musei Statali del mondo sono accessibili alle persone con disabilità; insomma è proprio un’eccezione trovare un museo non accessibile.
Leggo nel sito che chi ha una difficoltà motoria «potrebbe comunque incontrare delle difficoltà», potrebbe, altra parola cui tengo molto. Spiegano nel sito che hanno scelto di non adattare un luogo come Auschwitz, per mantenere l’originalità del posto.
Lì per lì concordo con la loro scelta; insomma, chiariamoci: non mi aspetto che tutto il mondo diventi accessibile ai disabili, so che ci sono dei luoghi che non si possono modificare, non mi aspettavo certo che ad Auschwitz sarei ad esempio riuscita ad entrare nei dormitori, o nei bagni, o nelle prigioni. Insomma, si mette in conto che non tutto sarà visitabile. Per altro ero già stata in visita a un campo di concentramento, la Risiera di San Sabba a Trieste, dove nel relativo sito era segnato che in quasi tutte le stanze era stata messa una rampa tranne che in due. Tra l’altro la Risiera di San Sabba fu un’esperienza davvero toccante, il campo è minuscolo rispetto ad Auschwitz, ma ti fa entrare veramente in empatia con quello che è successo. Anzi, non capisco perché non ci vadano tutte le scuole d’Italia in gita, ma vabbè.
Tornando al sito di Auschwitz, vi era scritto che si potevano forse incontrare delle difficoltà nei vialetti e in «qualche blocco» dove c’erano «alcuni gradini». Se mi dici «qualche» significa non in tutti. Se mi dici che ogni tanto potresti incontrare dei gradini, ma non mi parli di vere e proprie scale, io penso che tutto sommato qualche gradino con una carrozzina manuale si riesca anche a fare. Inoltre era segnato che era obbligatorio prenotare, sia per la visita guidata sia per l’entrata in solitaria. La visita guidata costava 20 euro per la persona “normodotata” e 18 euro per il disabile, quindi – di solito – quando lo scarto economico è così esiguo, significa che la persona con disabilità può fare quasi tutto. La visita individuale invece era gratuita, però facevano entrare solo dopo le 17, ed entrambi i campi chiudono alle 19, e tra un campo e l’altro bisogna spostarsi in auto o con le navette; quindi, insomma, meno di due ore a disposizione per campi enormi erano veramente poche. Scegliamo perciò la visita guidata.
I gruppi, nelle varie lingue, dovevano partire ogni quarto d’ora. Ad esempio: alle 14 partiva il gruppo in inglese, alle 14.15 quello in francese, alle 14.30 quello in polacco e così via, apparentemente, quindi, con un senso logico, in modo che i gruppi stessi non si trovassero insieme negli stessi luoghi negli stessi minuti. Il gruppo italiano era già pieno, decidiamo quindi di prenotare quello francese in modo che io potessi seguire e poi tradurre per la mia amica, ed eventualmente comunicare con la guida per tutte le eventuali esigenze con la carrozzina.
Pago tutto online e mi arrivano sulla mail i biglietti da scansionare all’ingresso, dove mi dicono che faranno anche il controllo dei documenti perché il nome sui biglietti non può essere più cambiato con un’altra persona. Comunicano anche la grandezza delle borse ammesse, tipo Ryanair (se non hai la borsa della dimensione giusta, ci sono i loro armadietti a pagamento).
Arriviamo ad Auschwitz con sentimenti che non sapevamo descrivere, eravamo preoccupate di uscire dalla visita completamente afflitte. In realtà, ci aspettavamo anche di uscire con afflizione, depressione, tristezza, ansia per quello che era successo in quei luoghi. Insomma, è inutile negarlo: Auschwitz ha su di sé anche tutta una simbologia, e le aspettative emotive sono alte.
Arriviamo e vedo i posti per i disabili, ma mi fermano e mi dicono che si paga. Spiego che sono una persona con disabilità e che mi muovo in carrozzina, ma dicono «ok i posti son quelli ma si paga». Vabbè paghiamo il parcheggio. Chiariamoci, non è per i soldi, è che quello – eravamo ancora inconsapevoli – era solo il primo indizio del fatto che Auschwitz è oggi trattato da chi lo gestisce come una “macchina da soldi”, punto e basta. Ma ancora non avevamo capito.
Arriviamo all’ingresso e mi accorgo che c’era una quantità letteralmente disumana di gente che non aveva prenotato, ma che stava facendo il biglietto. Quindi poteva entrare anche senza prenotazione, mentre nel sito era scritto di no. Erano le due del pomeriggio, ma pur di farli pagare non hanno detto alla massa disumana «tornate alle 17 che apriamo ai singoli». No, hanno detto loro: «Potete entrare anche ora, pagando». Il problema è che i gruppi erano già pieni, ma cosa hanno fatto? Hanno aggiunto altri gruppi in tutte le lingue che non erano previsti nel sito.
Passiamo i controlli di sicurezza, che neanche in aeroporto a Sydney sono così severi, e mi appare un tabellone dove è segnato che alle 14.15 – nostro orario con il gruppo francese – partono ben sette gruppi in contemporanea di tutte le lingue, compreso un gruppo in italiano che nel sito non c’era. Comincio a dire con la mia amica che c’è qualcosa che non va, perché in nessun museo del mondo i gruppi partono insieme. Soprattutto non sette gruppi di una ventina di persone ognuno!
Arriva la guida francese, che poi scopriamo essere polacca, come anche le altre guide: sono semplicemente polacchi che sanno bene una delle lingue europee e questo lo sottolineo perché poi la spiegazione in italiano viene fatta con cadenza polacca, quindi senza nessun pathos per come siamo abituati noi, ma pazienza. La guida in francese mi chiede subito se posso alzarmi in piedi e fare delle scale… Le dico «scusi come scale, quante scale??? Nel sito si parla di gradini… e qualche gradino eventualmente si riesce a fare se mi date una mano». Lei mi dice «no no, se non fai le scale son problemi seri», al che si insospettisce e mi chiede che lingua parliamo; le spiego che in realtà siamo italiane, che la mia amica non parla francese, ma che nel sito il gruppo italiano era già pieno. Lei mi dice «vado a chiedere al gruppo italiano che parte ora se vi prende», poi torna a dire che ci prende e noi sinceramente eravamo tutte contente. Ma inizia il delirio. Perché i gruppi stanno partendo, bisogna oltrepassare un tornello dove la carrozzina non passa e riscannerizzare il biglietto al tornello, ma poi io devo tornare indietro perché l’ascensore (la visita parte dal piano interrato) sta da un’altra parte, ma per aprire l’ascensore bisogna prima chiamare qualcuno che abbia le chiavi. Tutto questo in tre secondi mentre sette gruppi stanno partendo. Sorvolo sull’ansia e la fatica, ma ci ricongiungiamo col gruppo italiano.
Arriviamo al famoso cancello, quello con la famigerata scritta Arbeit Macht Frei, “il lavoro rende liberi”, ma ci dicono che non possiamo fermarci perché arrivano gli altri gruppi. Improvvisamente, dopo il cancello, scopriamo che il terreno di Auschwitz I è totalmente impraticabile con una carrozzina. Cominciamo ad incagliarci con le ruote dappertutto, ci viene il panico, perdiamo il gruppo, veniamo inglobate da quello polacco, io comincio a dire con la mia amica «senti, ormai ci hanno fatte entrare, continuiamo la visita da sole e facciamo quello che riusciamo, altrimenti torniamo indietro, oppure io ti aspetto qui dal famoso cancello che non abbiamo praticamente né visto né vissuto emotivamente e tu ti fai un giro da sola senza di me». La mia amica mi fa giustamente notare che dobbiamo trovare l’uscita di un campo gigante e siamo senza mappa avendo prenotato una visita guidata.
Ritroviamo il gruppo con fatica e panico, ma più passa il tempo più scopriamo che tutti i blocchi di Auschwitz visitabili quel giorno (non so se in alcune visite cambia qualcosa durante i mesi dell’anno) hanno tanti gradini per entrare, senza appoggi, e poi due o tre piani di scale all’interno, con scale strette, ripide e gradini consumati. Scopro già dal primo blocco, dove vengo “parcheggiata fuori”, che quando il gruppo entra nel blocco io non sento più la spiegazione nelle cuffiette che ci avevano dato. Quindi non solo non sono riuscita ad entrare da nessuna parte, ma non ho neppure sentito la spiegazione. Tutto questo ovviamente per 18 euro più parcheggio, che non è per i soldi, sia ben chiaro. Bastava però essere onesti nel sito fin da subito: «Qua le persone in carrozzina non ci possono venire». Punto. Va bene. Organizzavamo quella giornata in un altro modo. Bastava dircelo.
Ma la cosa più triste di tutte, quella che mi ha veramente depressa, è che anche le teche da museo, quelle con dentro ad esempio le scarpe, o le valigie, o gli occhiali da vista che venivano tolti alla povera gente che entrava lì, erano agli svariati piani dei blocchi.
Ripeto: mi aspettavo di non potere entrare dove dormivano, ma gli oggetti puoi anche posizionarli in un luogo accessibile, in fin dei conti lo dici tu che Auschwitz l’hai trasformato in un museo, gli oggetti da museo almeno fammeli vedere. Anche per i “normodotati”, però, la faccenda è stata molto ma molto complessa e molto ma molto deludente. Perché sette gruppi in spazi stretti sono un incubo per chiunque. Nessuno ha visto nulla, sentito nulla, potuto pensare a nulla. Era tutto un urlare delle guide «state di qua, state di là, spostatevi che devono passare gli altri».
Nel nostro gruppo una ragazza dentro un blocco è svenuta perché era una giornata molto calda e c’era troppa gente. La nostra guida ha intimato di uscire perché dovevano passare gli altri gruppi, ha quasi aggredito i genitori dicendo che per loro la visita finiva lì, ha mandato il padre da solo a cercare l’uscita perché bisognava restituire quelle maledette cuffiette, mentre la madre aspettava l’ambulanza con la figlia svenuta per terra e circondata da guardie polacche. Perché poi la guida italiana doveva proseguire il tour, mica stare con la poveraccia ad aiutare nella traduzione. Con il padre che vagava sperduto da solo e senza mappa. A un certo punto del percorso, uno del nostro gruppo ha avuto pietà di me e della mia amica e ci ha dato una mano a spingere la carrozzina, era un uomo alto e forzuto, ma faceva fatica anche lui e la carrozzina continuava a incastrarsi ovunque.
A un certo punto mi accorgo però che la ruota davanti sta cedendo e si sta rompendo: di nuovo il puro panico. Sì, perché mentre per la “gente comune” la carrozzina è un ausilio di costrizione («quello lì è costretto a vivere su una carrozzina») per chi è disabile la carrozzina è un grandissimo ausilio di libertà. Come sarei tornata all’auto e in stanza in hotel senza una carrozzina? Come avremmo potuto continuare il viaggio e visitare Cracovia? Sinceramente la mia preoccupazione cresceva, e poi mi dispiaceva anche per questo signore che per aiutare me rimaneva indietro.
La carrozzina, in questa nuova vita che ho, è il bene più prezioso che io abbia. Che poi, ora che siamo riuscite ad uscire da Auschwitz I, ci siamo confrontate, abbiamo riguardato le misere foto che siamo riuscite a fare senza il tempo necessario, ci siamo rese conto che forse alcune cose potevano anche essere leggermente visitabili, magari facendo entrare la persona con disabilità dall’uscita del blocco anziché dall’entrata, ma tutto questo con la folla e quella modalità “nazista” di fare (sì, lo dico, è politicamente scorretto, lo so) non è stato possibile. Poi meno male che abbiamo fatto il tour in italiano, almeno la mia amica ha sentito qualcosa, perché io da fuori non sentivo nulla e non avrei nemmeno potuto tradurle dal francese.
Poi la visita ad Auschwitz I finisce, con somma gioia di tutti i partecipanti. La guida però ci aspettava alle navette, per andare a Birkenau, Auschwitz II. Le abbiamo detto che per noi finiva lì. Lei ha detto «Dovete restituire le cuffiette!». Con calma siamo tornate alla macchina, ci siamo spostate a Birkenau in auto, dove non si paga il parcheggio, all’ingresso non ti chiedono il biglietto, non ci sono controlli, si entra e basta.
Birkenau è bellissimo. Lo so, è tremendo dire che un campo di concentramento dove si sono compiuti gli orrori della storia è bellissimo. Ma a Birkenau si respira, il luogo è talmente vasto che i gruppi si disperdono. A Birkenau i viali di accesso si riescono a fare anche con la carrozzina, per quanto siano quelli originali e non li abbiano modificati. Abbiamo incontrato tante persone di gruppi di altre lingue che si erano spostati a Birkenau da soli, mandando a quel paese la visita guidata. Abbiamo incontrato anche il signore che ci ha aiutate, ma lui era ancora intenzionato a seguire il gruppo solo che – nonostante fosse in forma e normodotato – aveva perso la nostra guida. Guida che in effetti dentro Birkenau non abbiamo mai visto, chissà che fine avrà fatto, sarà andata via perché con noi continuava a dire che aveva un gran caldo.
Qualche consiglio spassionato
Persone con disabilità: rinunciate, state a casa! A meno che non siate dotati di carri armati e di robusti e numerosi accompagnatori, non potrete mai fare i vialetti di Auschwitz I, e se anche li farete, non entrerete da nessuna parte. Oppure andate direttamente a Birkenau, in fin dei conti la classica foto “da film” si fa lì.
“Normodotati”: prenotate il tour individuale dopo le 17. Avrete poco tempo ma tutto sommato meglio del tempo che abbiamo avuto noi. Dalle 17, poi, spariscono i gruppi, quindi ci sarà tanta gente ma non così. Anzi, visto che a Birkenau non ci sono controlli, prima delle 17 andate lì, poi andate ad Auschwitz I, due ore vi basteranno e forse riuscirete a provare quello che a noi è mancato.
Nota bene: per “normodotati” intendo persone con corpi performanti, perché già persone ad esempio obese o camminanti con un bastone avranno serissime difficoltà.
Nota bene ancora: l’unica cosa che mi “consola” della mia non visita ad Auschwitz I, è che non ci sarei mai riuscita nemmeno nella mia vita precedente.
Ma Auschwitz dovrebbe essere adattato?
Prima di vederlo (o non vederlo) di persona pensavo di no. E ancora oggi una parte di me pensa di no. Cioè io la comprendo la voglia di mantenere un luogo del genere uguale uguale a com’era. Ma poi più passa il tempo e più mi vengono in mente delle soluzioni non invasive del paesaggio o delle strutture, certo non per fare piani di scale, ma almeno per fare i gradini di ingresso ai singoli blocchi.
Perché si dovrebbe privare una persona con disabilità di fruire di un luogo della storia così denso di significati? Le persone con disabilità, in quel periodo di storia in cui Auschwitz era attivo, neanche ci arrivavano ad Auschwitz. Venivano eliminate prima. Perché dovremmo “eliminarle” di nuovo?
Per chi poi se lo stesse chiedendo, la ruota della carrozzina ha retto per tutto il viaggio, peggiorando di giorno in giorno, per rompersi definitivamente a Bologna appena tornate.