Con un po’ di emozione, nel giugno del 2021, ci occupammo, su queste stesse pagine, di «quella che avrebbe dovuto essere una semplice Sentenza emanata dalla Corte Suprema dell’India riguardo ad un caso di violenza sessuale ai danni di una giovane donna cieca dalla nascita», ma che in concreto si prestava ad essere utilizzata come «una sorta di linea guida per affrontare i processi di violenza sessuale ai danni delle donne con disabilità. Un modello da studiare con attenzione e, perché no?, da esportare, con i dovuti adattamenti, in altri Paesi», come scrivemmo a suo tempo.
La Sentenza emanata dalla Corte Suprema dell’India il 27 aprile 2021 (Giurisdizione di Appello Penale, ricorso penale n. 452 del 2021) venne formulata dal giudice Dhananjaya Y Chandrachud, si riferiva ad un caso avvenuto nel 2011, e riguardava una donna di 19 anni, cieca sin dalla nascita, che era stata violentata da un amico di suo fratello (il testo della Sentenza è disponibile, in lingua inglese, a questo link).
La pronuncia del giudice era ed è interessante sotto diversi profili. In primo luogo era stata accettata la testimonianza della donna che, essendo cieca, aveva identificato il suo aggressore solo dalla voce. Nella sostanza il giudice aveva attribuito a questa modalità di identificazione la stessa rilevanza giuridica pacificamente accordata all’identificazione visiva, ampliando in qualche modo la gamma degli elementi che possono essere validamente utilizzati a fini probatori nei processi giudiziari che vedono coinvolte persone con disabilità.
Ma probabilmente l’aspetto più interessante e apprezzabile del pronunciamento riguarda il profilo culturale, giacché esso propone un’analisi del fenomeno della violenza nel quale è adottato un approccio intersezionale.
La vicenda torna alla mente in questi giorni, scoprendo che la Corte Suprema dell’India ha recentemente pubblicato il testo Handbook on Combating Gender Stereotypes (“Manuale sulla lotta agli stereotipi di genere”), e che la prefazione di ersso è firmata dallo stesso giudice autore della Sentenza del 2021, Dhananjaya Y Chandrachud, nella sua veste di presidente della Corte Suprema dell’India (il manuale, in lingua inglese e in formato .pdf accessibile, è liberamente consultabile e scaricabile a questo link).
Nella sua prefazione Chandrachud osserva che «molte parole o frasi utilizzate nel discorso giuridico (sia da avvocati che da giudici) riflettono idee arcaiche con sfumature patriarcali», e che «affidarsi a stereotipi predeterminati nel processo decisionale giudiziario viola il dovere dei giudici di decidere ogni caso nel merito, in modo indipendente e imparziale. In particolare, fare affidamento sugli stereotipi sulle donne rischia di distorcere in modo dannoso l’applicazione della legge alle donne» (grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni testuali).
«Anche quando l’uso degli stereotipi non altera l’esito di una causa, il linguaggio stereotipato può rafforzare idee contrarie alla nostra etica costituzionale – spiega ancora il presidente della Corte Suprema dell’India –. La lingua è fondamentale per la vita della legge. Le parole sono il veicolo attraverso il quale vengono comunicati i valori della legge. Le parole trasmettono alla Nazione l’intenzione ultima del legislatore o del giudice. Tuttavia, il linguaggio utilizzato da un giudice riflette non solo la sua interpretazione della legge, ma anche la sua percezione della società. Laddove il linguaggio del discorso giudiziario riflette idee antiquate o errate sulle donne, inibisce il progetto di trasformazione della legge e della Costituzione indiana, che cercano di garantire pari diritti a tutte le persone, indipendentemente dal genere».
L’intento del manuale è quello di assistere i/le giudici e la comunità giuridica nell’identificazione, comprensione e lotta agli stereotipi sulle donne. Esso si compone di trenta pagine, è suddiviso in tre sezioni, e si propone come uno strumento di facile consultazione.
La prima sezione è introdotta da un glossario costruito come una tabella a due colonne. Nella prima colonna sono riportati i termini stereotipati e scorretti rispetto al genere, mentre nell’altra colonna vengono suggeriti termini o espressioni alternative che possono essere utilizzate nella redazione di memorie, ordinanze e sentenze (ad esempio: invece di “adultera” è preferibile usare l’espressione “donna che ha avuto rapporti sessuali al di fuori di matrimonio”; invece che “sesso biologico”, “nata femmina” o “nato maschio” per riferirsi alle persone trans, è preferibile usare “assegnata femmina alla nascita” e “assegnato maschio alla nascita”).
Quindi sono identificati gli stereotipi più comuni sulle donne, molti dei quali sono stati utilizzati dai Tribunali in passato, dunque viene mostrato perché sono imprecisi e come possono distorcere l’applicazione della legge. «L’intenzione non è quella di criticare o mettere in dubbio i giudizi passati, ma semplicemente di mostrare come gli stereotipi possano essere utilizzati involontariamente», si legge ancora nella prefazione.
Nella seconda sezione sono fornite delle informazioni per comprendere il funzionamento di tre diverse tipologie di stereotipi di genere: gli stereotipi basati sulle presunte “caratteristiche intrinseche” attribuite alle donne; quelli basati sui ruoli di genere naturalmente assegnati alle donne; e quelli che riguardano il sesso, la sessualità e la violenza sessuale.
Infine, nella terza sezione, vengono prese in esame diverse Sentenze in cui sono presenti stereotipi di genere e affrontate le principali questioni giuridiche che possono essere rilevanti nel giudicare alcuni casi, in particolare quelli riguardanti la violenza sessuale. Per un’analisi in lingua italiana più dettagliata si può leggere il seguente articolo: La notevolissima guida linguistica della Corte Suprema indiana contro il sessismo («il Post», 18 agosto 2023).
Quanto anche in Italia il discorso pubblico e giuridico sia impregnato di stereotipi di genere e di “sfumature patriarcali” ce lo mostrano i media quotidianamente (in questi giorni si discute dello stupro di gruppo di Palermo con modalità spesso assai discutibili e, soprattutto sui social, ma non solo, c’è chi ha invocato la pena di morte o la castrazione chimica per gli aggressori, come se rispondere alla violenza con altra violenza fosse la cosa più normale del mondo, come se quella violenza fosse espressione di una devianza e non la logica conseguenza dei retaggi patriarcali che persistono inalterati nella nostra cultura; mentre nel luglio scorso, con una Sentenza del Tribunale di Roma, tre giudici donne hanno assolto un bidello di 66 anni che ha molestato una ragazza di 17 anni toccandole le parti intime, perché la molestia, essendo durata solo “10 secondi”, non è stata ritenuta tale). Né si può affermare che sul versante degli stereotipi abilisti siamo messi meglio: a parte la disinvoltura con cui anche alcune/i giornalisti/e continuano ad usare termini afferenti all’area della disabilità come insulto, i nostri Codici continuano a designare le persone con disabilità parlando di «condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona», come fa, ad esempio, l’articolo 609 bis del Codice Penale.
Per tali ragioni dovrebbe essere relativamente semplice intuire quali ripercussioni possa avare tutto questo su chi assomma in sé le caratteristiche di essere donna e contemporaneamente anche una persona con disabilità.
«Spero sinceramente che questo Manuale sia ampiamente letto da tutti i componenti che esercitano la professione giuridica in India, per garantire che il ragionamento e la scrittura giuridica siano liberi da nozioni dannose sulle donne», è l’auspicio di Chandrachud. Il nostro è che qualcuno o qualcuna produca un manuale simile anche per l’Italia, e che lo sviluppi adottando quell’approccio intersezionale che Chandrachud impiegò magistralmente nella citata Sentenza del 2021.
Non possiamo più permetterci di combattere un sistema oppressivo alla volta. Chi combatte il sessismo deve disporsi a combattere anche l’abilismo, il razzismo, l’omo-lesbo-bi-transfobia, il classismo ecc. Una società o è giusta per tutti e tutte, o non lo è.
Ringraziamo Martina Gerosa per la segnalazione.
Suggeriamo anche la consultazione, nel sito del Centro Informare un’h, delle Sezioni su La violenza nei confronti delle donne con disabilità e su Donne con disabilità.