L’autismo, il linguaggio “fiabesco”, la realtà e l’“imperfetta unicità”

Pronti a dare spazio ad ulteriori motivate opinioni sulle medesime questioni trattate, ospitiamo qui di seguito il contributo di riflessione di Gianfranco Vitale, dedicato all’autismo e a tutto quanto ruota oggi intorno ad esso nel nostro Paese, seguito da un commento di Antonio Giuseppe Malafarina, direttore responsabile di «Superando.it»

Gabriele Vitale

Gabriele, persona adulta con autismo

Pronti a dare spazio ad ulteriori motivate opinioni sulle medesime questioni trattate, ospitiamo qui di seguito il contributo di riflessione di Gianfranco Vitale, dedicato all’autismo e a tutto quanto ruota oggi intorno ad esso nel nostro Paese, seguito da un commento di Antonio Giuseppe Malafarina, direttore responsabile di «Superando.it».

Chiamare “speciali” le persone autistiche è espressione di un linguaggio irreale, prima ancora che ambiguo. È una delle tante etichette che vengono appiccicate agli autistici, incuranti del rischio di seminare confusione e banalizzare una realtà che, al contrario, è molto complicata, visto che l’autismo altro non è che l’abisso esistente tra una vita normale e un’esistenza profondamente e (spesso) drammaticamente “altra”.
Dire «mio figlio è speciale» confonde e non aiuta a capire nulla di questo abisso. È una chiave, bella e luccicante finché si vuole, che però non gira nel buco della serratura. Dire più “semplicemente” «mio figlio è autistico», senza inutili aggettivazioni, significa prendere in mano una chiave piccola, un po’ arrugginita, ma capace di aprire una porta che svela un mondo, affascinante nella sua complessità, che la gente non conosce e non ha voglia di approcciare.

Il genere “fiabesco”, tanto caro a molti, non si ferma certo alla sublimazione dei figli “speciali”… Quante volte ci capita di ascoltare frasi, tipo «c’è di peggio» (come se non lo sapessimo…) o vedere persino tirati in ballo i santi e il volere di Dio. «Dio l’ha mandato a te perché sapeva che potevi affrontare questa prova»: bisogna smetterla di fare affermazioni così sciocche (lo dico con rispetto verso chi crede). Provate voi cosa significa per un genitore rimanere sveglio per mesi, in piena notte, con un figlio in crisi che non si sa come consolare; andate voi alle riunioni di scuola a spiegare che avete un figlio autistico che non può contare su un insegnante di sostegno formato per questo tipo di disabilità; attraversate voi la strada con un figlio che all’improvviso decide di sdraiarsi sulle strisce pedonali…
Anziché fare ipocriti richiami religiosi, indossate per un po’ i nostri panni, vivete le giornate che rappresentano lo standard di tante mamme e papà con figli autistici gravi o gravissimi, e poi ne riparliamo. Poi vediamo se è il caso che Dio venga a risolvere i problemi o se, piuttosto, non rimane che a noi provare a farlo, rimboccandoci le maniche e lottando ogni giorno fino allo stremo delle forze.

In questo bizzarro caleidoscopio di voci impazzite c’è chi si spinge addirittura a parlare di dono (salvo spaventarsi e darsela precipitosamente a gambe quando vede un autistico in carne e ossa…). Sappiano, questi bacchettoni da salotto, che gli regalo volentieri il dono dell’autismo, si faccia avanti chi lo vuole! Mio figlio Gabriele è sicuramente la persona che amo di più, ma non sono affatto innamorato e orgoglioso del suo autismo, del quale farei (e lo farebbe anche lui) molto volentieri a meno se solo potessi. Altro che Autistic Pride!
L’autismo non è solo una neurodiversità, già di per sé capace di limitare fortemente l’apprendimento anche di semplici abilità… Nelle forme più regressive non va dimenticato che presenta comorbidità, gravi compromissioni, ritardi, manifestazioni auto-etero lesionistiche ecc.
A scanso di equivoci: non sto affermando che l’autismo è una malattia, né sto asserendo il contrario. Dico solo che non basta scrivere che certe gravi e gravissime implicazioni cliniche e comportamentali “vanno affrontate”, anziché curate, per rendere la vita di un genitore, e di suo figlio, meno pesante.
Cosa dire, poi, della retorica legata ad espressioni tipo «vedrai che con le terapie andrà tutto bene» A quanti pronunciano queste e altre idiozie sfugge, per cominciare, un dato fondamentale: l’autismo non abbandona chi ce l’ha, né esiste un farmaco ad hoc per contrastarlo. La terapia, per i genitori, significa portare avanti un impegno quotidiano, durissimo, per ventiquattr’ore su ventiquattro. Per noi la terapia è imparare a comunicare diversamente, è educare diversamente, è insegnare diversamente, è rapportarsi con il mondo diversamente. Facile, no?

Siamo stremati dal sistema assurdo di burocrazia e incompetenza che ruota intorno all’autismo. Siamo esausti di dover lottare ogni giorno contro l’ignoranza e i pregiudizi, contro le Istituzioni che dovrebbero tenderci una mano e la maggior parte delle volte ci prendono a calci in…, rendendoci la vita ancora più difficile. Siamo contro il business di (im)prenditori e personaggi vari, che grazie all’autismo hanno costruito fortune, carriere e patrimoni.
È per questo che certe parole edulcorate e certe frasi retoriche ci arrivano come schiaffi in faccia. Non hanno senso, né ne hanno i racconti di un autismo barocco e fantastico che esiste solo nell’immaginario di pochi. L’autismo o si racconta bene (tutto) o, se lo si fa solo in parte, si rischia di emarginare ulteriormente chi lo è già. Penso alle pesanti ripercussioni psicologiche subite da tanti genitori con figli autistici gravi, che davanti a un tam tam costruito quasi ad arte si sentono inadeguati, frustrati, incapaci, perché i loro figli, a fronte di tanti sacrifici, non potranno mai accedere a un certo genere di opportunità. E d’altra parte né i Servizi (fantasma) né le Istituzioni (che fanno a gara per defilarsi), lavorano sul territorio per costruire qualcosa che vagamente e lontanamente somigli ad un’opportunità!
In molte zone del Paese non è possibile ricevere una diagnosi. Non esiste una presa in carico globale e interdisciplinare, non esistono strutture socio–sanitarie convenzionate per la terapia ABA [Analisi Applicata del Comportamento, N.d.R.]. Non ci sono percorsi ospedalieri di cura dedicati ed assistiti, che si richiamano alla rete DAMA [Disabled Advanced Medical Assistance, ovvero “Assistenza medica avanzata alle persone con disabilità”, N.d.R.]. La scuola è troppo spesso inadeguata, la formazione di educatori – mediatori neuro-culturali – assistenti – tutor – è estremamente carente. I bandi per il Fondo per la Non Autosufficienza sono bloccati, il “Dopo di Noi” è uno slogan.
Dopo i 18 anni, e la fine del percorso scolastico, i nostri ragazzi diventano fantasmi, soggetti “inutili” da consegnare alla psichiatria e/o “appaltare” a strutture residenziali che non di rado si rivelano luoghi segreganti e lesivi della dignità individuale (eppure le cooperative che le gestiscono percepiscono una somma che varia da 200 a 350 euro al giorno a seconda dell’intensità assistenziale necessaria!). La legge sul “progetto di vita” e il budget di cura è una farsa; il lavoro un’utopia; i caregiver traditi, sfruttati e umiliati. La verità è questa, altro che l’autismo “fiabesco” di cui si fantastica!
I genitori vengono lasciati soli, i figli – privi di un serio percorso abilitativo – sono inevitabilmente destinati a diventare esclusi, frastornati, smarriti. Si dirà: al mondo, però, ci sono anche autistici che scrivono libri, suonano, ballano, compongono poesie, parlano correttamente due lingue, girano in moto, relazionano in convegni prestigiosi, si sposano, guidano la macchina, lavorano… È vero, ma non si può fingere che intorno a noi c’è tanto altro, e per nulla accattivante. Ci sono genitori che piangono per la felicità non di sentire parlare il proprio figlio in inglese e spagnolo, ma perché, dopo mille tentativi, si sentono chiamare “maaa-mma” o “paaa-pà” da un uomo di trenta o quarant’anni! C’è una miriade di cose che moltissime persone autistiche non possono nemmeno immaginare, figuriamoci se è data loro la possibilità di realizzarle… Tutto questo non le rende affatto “speciali”, ma, in compenso, rende “specialmente e vergognosamente incivile” un Paese come il nostro, che poco o nulla investe sull’autismo!

Io e Gabriele siamo un padre e un figlio come tanti, non abbiamo e non vogliamo avere nulla di speciale. Cerchiamo le parole che effettivamente descrivono la realtà, provando a chiamare le cose col loro nome, perché sentiamo di non volerci prendere in giro e in giro non vogliamo prendere nessuno. Per noi il “politically correct” non esiste, le priorità e i bisogni sono altri.
Proviamo a chiarire a tutti, – senza inibizioni o ventilati “orgogli” – quali sono le necessità reali di una persona autistica, quali i suoi limiti, quali le sue difficoltà. Per noi “Autismo” è il passepartout di una conoscenza che occorre cominciare a trasmettere già ai più piccoli, perché – ne siamo certi – nella loro carriera scolastica avranno sempre un bimbo o un adolescente diverso seduto al banco accanto. Diverso, non speciale.
Accettiamo, fino in fondo, l’imperfetta unicità con cui la disabilità ci chiede di misurarci. Crediamo che “l’amore vince su tutto”, altra frase sgangherata che ascoltiamo spesso, potrebbe tranquillamente essere il titolo di una fiction bellissima che però non ci azzecca nulla con la trama che va in scena ogni giorno nelle case di molte delle seicentomila famiglie che, direttamente o indirettamente, convivono con l’autismo.
È ovvio che come ogni genitore amiamo fino alla follia i nostri figli (non c’è bisogno che siano autistici per farlo). ma sappiamo che la risposta al male devastante che l’autismo produce può arrivare solo dalla formazione, dall’inclusione e soprattutto dalla ricerca.

Opportunamente si sottolinea, ogni volta, la crescente importanza che (anche) in questo campo assume la comunicazione. Non può esserci un’informazione corretta che non metta al centro della discussione la verità e l’esigenza di raccontarla in modo obiettivo. Se si accetta questa pregiudiziale, diventa impossibile “dimenticare” – da una parte – che l’autismo severo, di “livello 3”, rappresenta una condizione estremamente diversa dall’autismo lieve che rientra nel “livello 1” (nonché da quello medio che appartiene al “livello 2”) e – dall’altra – che gli autistici gravi e gravissimi sono numericamente tanti (oggi, negli Stati Uniti, Paese che precede l’Italia di diversi anni, i dati del 2020 riferiscono che il rapporto è di due terzi di “livello 1” contro un terzo dei “livelli 2 e 3”; ringrazio il professor Carlo Hanau per la gentile collaborazione).
Non mi vergogno di confessare il timore, per altro largamente condiviso, di un possibile futuro sconfinamento coatto di queste persone verso… àmbiti impropri (vogliamo dire manicomiali?), essendo altissimo il rischio di sviluppare patologie psichiatriche con l’avanzare dell’età, in mancanza di serie politiche di approccio clinico e cognitivo comportamentale.
Non saranno gli scongiuri ad allontanare questo scenario, ma solo (e unicamente) la lotta per il riconoscimento di quei diritti primari che ogni giorno sono impunemente e brutalmente calpestati e negati.
A tutti, proprio tutti, deve essere garantito il pieno diritto ad apprendere, ad agire, partecipare, decidere: in una sola parola a pensare e gioire della vita.
Gianfranco Vitale – Padre di un uomo autistico adulto (https://www.facebook.com/autismoIN).

Sono assolutamente d’accordo con Gianfranco Vitale in merito alla sopravvalutazione generalizzata delle capacità delle persone con autismo, ovvero all’eccessivo risalto che si dà alle persone che nella maggior parte dei casi se non vivono in condizioni di almeno parziale disagio, comunque convivono con una società non tagliata per loro, quindi non ospitale. Il modo di comunicare condannato da Vitale mi vede in sintonia poiché è abilista. Anzi è inspiration porn, in quanto sopravvaluta smodatamente gli atti dei soggetti in virtù della condizione di disabilità delle persone, come se questa fosse una dote. Da questo punto di vista siamo assolutamente in sintonia.
Sono anche d’accordo sulla carenza di un apparato sociale, ovvero sociosanitario, in grado di fornire alle persone con autismo le giuste risposte ai loro bisogni. Tuttavia non nella maniera drastica con cui Vitale dipinge il nostro apparato sociosanitario.
Parlare di “cura”, però, non può andare bene. Capisco che dal punto di vista giuridico, ovvero sociosanitario, potrebbe essere opportuno usare questo termine, ma dal punto di vista linguistico, con l’intenzione di invitare gli enti preposti a usare il giusto linguaggio, è opportuno parlare di “prendersi cura”. Ovvero di intraprendere politiche ben più efficaci di assistenza alle persone con disabilità e alle loro famiglie.
Anche sostenere che il nostro sia un Paese, seppure in merito all’autismo, «specialmente e vergognosamente incivile», ci pare assai estremo, visto che, come lo stesso Vitale ammette, ci sono persone autistiche che riescono a emergere, cosa che non sarebbe possibile se il nostro Paese fosse come egli lo descrive con la sua affermazione.
Infine lascia perplessi l’impostazione generale del pezzo, perché pretendendo giustamente una comunicazione obiettiva che stia ben lontana dall’ispirazione in positivo, finisce per sostenere in maniera sottintesa, a mio giudizio, che ci si debba esprimere “al ribasso”. Cioè che si debba dare smisurato spazio alle difficoltà incontrate.
Mi piace molto, infine, quello che scrive Gianfranco Vitale sul rapporto con il figlio, quando cioè parla di «imperfetta unicità». Lavoriamo dunque insieme costruttivamente per fare della buona comunicazione in generale e in questo caso soprattutto dell’autismo. Aiutiamo le famiglie, cioè le persone. Facciamolo rivendicando le nostre istanze senza fuorvianti estremismi.
Antonio Giuseppe Malafarina – Direttore responsabile di «Superando.it»

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