Oggi, nelle varie scuole, anche in epoca di post psico-pandemia, appare utile riflettere su alcuni spunti etico-morali che trasversalmente, a mio parere, stanno condizionando il vivere sociale e il nostro incedere quotidiano esistenziale; ciò è tanto necessario in quanto è elevata la spinta propulsiva de “il digitale è bello, rappresenta il futuro ed è inclusivo”.
Ci si sta avviando verso un totalitarismo digitale in cui l’espressione imperante a sostegno di tale svolta epocale è: questo è il futuro? Siamo sicuri che rappresenti l’unico scenario ipotizzabile per la nostra umanità? Il digitale non lo si sta enfatizzando eccessivamente? Non sta diventando una sorta di ideologia ineludibile?
Partirò da lontano: la nostra dimenticata Costituzione, che qualche importantissimo spunto di riflessione ci offre.
Ricordando che la Carta Costituzionale è stata frutto di un laborioso compromesso fra le varie forze politiche che, nel dopoguerra, hanno pensato di essere lungimiranti, inserendo nei primi quattro articoli della costituzione l’essenza del Paese Italia e del nostro essere cittadini di questa Nazione: Democrazia, Lavoro, Uguaglianza e Pieno sviluppo della persona umana. Di contro, ciò che oggi emerge è un lento ma costante emergere di disvalori, grazie anche all’affermarsi spudorato dell’Io che sembra debba prevalere sul Noi.
L’informazione pare all’unisono diventata il veicolo del mero pensiero dominante, il fare politica, è permeata da un pensare alla societas privo di progettualità a medio-lungo termine; l’insieme delle persone viene al contempo sommerso da consumismo fortemente sostenuto dalla tecnologia che rischia di consumare anche l’essenza socio-relazionale umana: il vis a vis.
Anche la scuola, complice il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ci fa continuare a pensare solo all’oggi, alias consenso da conquistare pro-tecnologia sin dai primi anni. Infatti, a suon di milioni di euro, si sostiene che la transizione digitale verso il metaverso e l’on-life è conditio sine qua non, patognomico di evoluzione e progresso. E chi lo dice che tale scelta migliorerà la vita delle persone? Utilizzando i concetti di Pasolini credo che si tratti di sviluppo e non di progresso.
In ogni caso, mi sembra si faccia di tutto perché i “fondamentali” di questo nostro Paese siano minati alla base. L’intera società, ovvero noi cittadini di questa Repubblica, si sta passivamente adattando al qui ed ora e a ciò si affianca l’assenza del desiderio di fare, per poter sostenere un cambiamento sempre più cogente, ma che vuole tempo, discernimento e forza volitiva.
Nelle scuole si continua a risentire pesantemente di questa accelerazione del ritmo, in un luogo ove per costruire insieme un percorso formativo-apprendimentale – teso all’acquisizione di conoscenze e saperi trasversali e non solo di mere capacità tecnico-esecutive tecnologicamente avanzate – occorre dedicare tempo, tanto tempo in modo particolare ai nostri studenti con BES (Bisogni Educativi Speciali), con disabilità in primis (e serve pure tanta paideia, intesa come formazione).
Sono decisamente scettico allorquando, nei corsi di formazione ove si parla di intelligenza artificiale, avatar, didattica immersiva mediata da app, si vende l’uso della tecnologia come panacea inclusiva.
A scuola che succede? Si pensa a fare la nostra brava didattica con le nuove rivoluzionarie tecnologie, certi che porteranno l’agognato apprendimento immersivo e un protagonismo soggettivo.
Qui mi preme precisare che è immersiva ogni attività, specie se analogica, che permette ad ogni discente di effettuare un’esperienza diretta e appassionante, in cui tutta la persona viene coinvolta con la sua sensorialità e sensitività (corpo, cuore e mente) e mi chiedo come gusto, olfatto, tatto e propriocettività potranno essere convolti, allorquando si attuerà una didattica immersiva mediante la nuova tecnologia…
Nel corso di un interscambio verbale con un collega, ad un certo punto si ferma e mi dice: «Guarda che tu lavori in una nicchia, non riesci a capire». Mi sovviene il seguente interrogativo: come si può andare oltre, verso la costruzione di un futuro che – seppure incerto (anche se la rivoluzione “green e digitale” ci viene narrata come unica possibile – va pensato e perseguito pragmaticamente, anche se faticosamente?
Al caro collega mi rivolgo dicendogli che non si tratta solo di implementare l’uso degli strumenti tecnologici, ma di aprire il cuore e solo se ciò avviene poi, incredibilmente, si incontrano le menti delle persone. In tal senso mi pare che i neo-fantastici strumenti e applicazioni alla didattica abbiano il compito di aprire la mente divertendocisi.
Acquisire il sapere alias conoscenze è mero divertimento? È vero che giocando si impara, ma è altrettanto vero che divenire consapevoli di un contenuto può anche essere caratterizzato da “noia e fatica”, ma non per questo la sfida e il piacere della conoscenza vengono meno. Importante è che vi sia un substrato interiore caratterizzato da motivazione e desiderio-sete di sapere, di capire.
È qui che sta la chiave di volta del processo di insegnamento-apprendimento: il docente deve affascinare coloro che ha di fronte e lo strumento tecnologico può rappresentare un elemento importante per catturare l’attenzione iniziale che si protrae nel discente, se si percepisce che il partecipare attivamente al processo di insegnamento-apprendimento è anche al servizio della crescita umana dell’alunno stesso.
Ciò che mi fa inorridire è – aspetto già posto in essere sin dalla scuola primaria – affermare che grazie al digitale introdotto con i bambini (è valido se il digitale è usato bene in termini metodologico-organizzativi e, talvolta, in termini partecipativo-inclusivi), si permetterà loro di raggiungere le prescritte competenze che poi serviranno alla “società produttiva”.
Il «non ha le competenze per lavorare nella mia disciplina», alle superiori, diventa quasi un mantra ipnotizzante, teso a evidenziare che “non funziona”, ma allorquando apostrofo la collega disciplinarista nel fermarsi a pensare se il nostro studente con disabilità può “stare al mondo” e parteciparvi con quel poco che impara nella sua materia, allora, immediatamente, scatta il «non è giusto nei confronti degli altri suoi compagni, anche lui deve raggiungere i cosiddetti obiettivi minimi» (e ci si dimentica della lezione di don Milani: «Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali fra diversi»).
Quindi mi chiedo, però, quali siano le reali competenze che, in sintonia con lo studente-persona con disabilità, sostengono da un lato il soddisfacimento dei suoi bisogni e dall’altro la realizzazione delle sue aspirazioni realisticamente perseguibili.
Di fatto ora è cambiato l’alibi per i docenti: non è più il programma ministeriale, ma sono le competenze previste dai PECUP (Profili Educativi, Culturali e Professionali) presenti nei vari ordinamenti che devono essere presenti in ogni studente al termine del secondo ciclo. Personalmente sono di tutt’altro avviso: i miei colleghi curricolari della secondaria di secondo grado non devono esclusivamente pensare che trattasi di “standard stabiliti” per legge, ma vanno “semplicemente” intesi come la possibilità che, attraverso obiettivi formativi ben delineati, si raggiunga, con quello studente con BES, il massimo sviluppo possibile.
In altri termini il curricolo – costituito dai nuclei fondanti e dall’epistemologia delle discipline – sarebbe opportuno integrarlo con gli “obiettivi formativi” veicolati mediante un percorso inter e trans-disciplinare afferente a specifiche e ben articolate Unità di Apprendimento.
Grazie all’azione didattico-educativa mediata dalle varie materie, si dovrebbero da un lato integrare i saperi, dall’altro si dovrebbero evolvere-trasformare le abilità e le conoscenze disciplinari, innestate sulle capacità individuali – già presenti nello studente -, in competenze personali esistenziali.
Il profilo in uscita è ciò che il ragazzo/a dovrebbe conoscere e saper fare al termine della Classe Quinta, ma è pericoloso sentir parlare, in sala docenti, di “livelli medi di padronanza attesi”. E per lo studente con disabilità che non possiede capacità intrinseche attese? Che facciamo? Gli proponiamo di seguire un Piano Educativo Individualizzato Differenziato (PEID)? O meglio lo coinvolgiamo in un accattivante percorso ad ostacoli mediato dalla tecnologia affinché si senta incluso, poiché tutti i compagni di classe stanno usando il computer? Veramente si crede che per ogni studente la formazione transiti facendo sì che permanga davanti allo schermo del PC?
«Giovanni, ma che vuoi?» mi dice qualche collega. Una cosa semplice: per conoscere la persona con cui desidero lavorare ho bisogno di tempo; come docente di sostegno, per effettuare un’analisi in chiave ICF [Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] nei vari segmenti-aree di funzionamento, necessita capire l’altro, ascoltarlo, rispettare i suoi tempi e nel tempo, secondo scienza e coscienza, stilare delle osservazione per iscritto, da condividere in seno al Consiglio di Classe. Eh no, la dirigenza afferma che dobbiamo avere le osservazioni entro metà ottobre e per legge dobbiamo stilare il Piano Educativo Individualizzato (PEI) entro la fine del mese.
Basta! È ora di dire basta alle procedure che spesso sono finalizzate al soddisfacimento di meri aspetti burocratici-amministrativi: le tanto temute scadenze!
A nulla vale ricordare ai colleghi che il Consiglio di Classe è sovrano e che quindi può deliberare che noi docenti, per stilare il PEI-neo modello ICF, per un alunno con disabilità in ingresso, abbiamo bisogno di tempo e a maggior ragione poiché non vi è il Profilo di Funzionamento stilato dagli specialisti… A nulla valgono le mie argomentazioni, perché impera il fatto che «la dirigenza dice che vanno assolutamente rispettati i tempi che la legge detta alias scadenze». Sigh!
Chiaramente non mi do per vinto, ma sin da subito appare inutile insistere; inutile che io abbia a reiterare il messaggio che occorre decidere “di caso in caso”, valorizzando, con flessibilità, ciò che le norme permettono ovvero avendo costantemente in mente che le procedure sono al servizio della persona e non viceversa. Niente da fare. Si stilano i PEI nel neo formato digitale, talvolta in modo raffazzonato, ma l’importante è che il documento sia stato compilato poi, a nessuno tange se realmente diviene uno strumento di lavoro: l’importante è – così come laconicamente ha proferito il coordinatore di classe – «essere a posto con la burocrazia»…
Questa è la lentissima deriva che si sta affermando in modo strisciante e progressivo: da una parte l’insegnante specializzato sempre più schiacciato ad espletare un supporto specifico connesso con quelle discipline ostiche per lo studente con disabilità, dall’altro l’insegnante curricolare a lamentarsi che le competenze sono basse, affermando che c’è molto da lavorare per ottenere il livello base…meglio il Piano Educativo Individualizzato Differenziato!
In tali circostanze, se l’insegnante di sostegno picchia i pugni sul tavolo dicendo di far mettere a verbale che «l’intera comunità educante ha la responsabilità dell’inclusione», se va bene si aprono due scenari: 1. Sia il docente che lo studente vengono dimenticati e neppure considerati ovvero marginalizzati nell’incedere della programmazione didattico-educativa; 2. Lo studente con disabilità viene coinvolto e il docente di sostegno rincorre continuamente il curricolare, dicendogli di adattare metodologie e strumenti di verifica e valutazione. Oppure ancora, cosa molto più frequente, l’insegnante di sostegno si fa inimicizie professionali (aveva osato evidenziare in pubblico e fatto verbalizzare che la responsabilità del successo scolastico dell’alunno con disabilità è di tutti) e se tutto procede secondo un cliché collaudato, prima o poi giungono frasi del tipo «il tuo studente non ce la fa proprio», «io devo pensare alla classe e non posso…», «sai, se tu sei assente lo studente è scoperto» (quindi ti si fa pesare, in termini di senso di colpa, anche una legittima non presenza…).
Cosa succede nell’aula se nella testa dei docenti c’è il pensiero che, per quell’alunno con disabilità necessita da subito, sin dall’ingresso in classe prima superiore, di un Piano Educativo Individualizzato Differenziato? È la profezia che si autoavvera: se non corri, se non stai dietro alla accelerazione del tempo, ovvero se non sei performante e non ce la fai, scatta l’etichetta: «Il tuo studente con disabilità è lento, non ce la farà mai!».
Cerco di avanzare qualche accorgimento metodologico-didattico, anziché suggerire-proporre una strategia educativo-formativa… «Ma no, non ti preoccupare, adesso con le nuove tecnologie…» e il ritmo di spiegazione si fa ancora più martellante e l’alunno è sì attratto dal fatto che può essere coinvolto tecnicamente, ma le conoscenze scemano, i pochi contenuti interconnessi si parcellizzano ancor di più… In realtà ciò che si afferma è l’acquisizione e la scoperta del cosa si può fare con il PC.
E che gli serve, se ciò diventa solo un apprendimento strumentale? Lo aiuta ad essere più consapevole delle sue potenzialità? Conoscerà meglio i suoi limiti e le sue risorse motivazionali? Oppure scoprirà, nel tempo, che la nuova tecnologia è sì avviluppante, ma lo fa partecipare solo marginalmente? «Ma io non sento nessuno dopo la scuola», afferma sconfortato lo studente con disabilità». «Sì, ci vediamo con la web-cam, ma non esco la sera». È questa la neo-ibridazione on-life agognata?
Nel complesso si snatura il processo di insegnamento-apprendimento che vuole che vi sia il tempo necessario per acquisire, rielaborare, interiorizzare neo apprendimenti che, a loro volta, possano sostenere l’evoluzione del soggetto, di quello studente che, sebbene abbia delle fragilità, può essere accolto e accompagnato, nel tempo e con il tempo, a diventare una persona con piena cittadinanza attiva.
Qui va evidenziato che in un calderone generale in cui l’importante è riuscire nelle varie materie, anche la famiglia spesso, troppo spesso, non pensa al dopo la scuola superiore e non dà né a se stessa né al figliolo con disabilità un respiro ampio, tipico di una programmazione a lungo termine, che dovrebbe essere connessa con il Progetto Individuale o Progetto di Vita. Pensare alla realizzazione di cose da farsi nei tempi lunghi permette sia di nutrire la speranza – accettando la sfida del quotidiano, che per il singolo docente consiste nel cercare di cambiare il diffuso paradigma connesso con il misurare le performance -, sia di sostenere la motivazione di cose da fare e realizzare in tale prospettiva lungimirante.
Il docente curricolare delle superiori spesso frappone fra sé e il profilo dello studente “standard” (leggasi il Profilo Educativo, Culturale e Professionale e relative competenze) una barriera: il non offrire ai giovani sollecitazioni anche ad personam. Solo allorquando si verifica la “personalizzazione del tratto” e il coinvolgimento diretto, cioè si sostiene il protagonismo diretto, allora sì che i nostri adolescenti-studenti sono attenti e partecipi, registrano che il nuovo modo di proporre e realizzare un percorso formativo è non solo funzionale al voto alias performance, ma, essendo a misura di ogni studente-persona, diventa stimolante e motivante. Infatti è premiante e soddisfacente, in termini professionali, andare oltre le discipline, ovvero ricorrere all’uso flessibile del tempo, sfruttare le ICT [Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, N.d.R.], per proporre una didattica innovativa, ma non far diventare la disciplina schiava dell’uso spasmodico del digitale-virtuale; proporre cioè un apprendimento autonomo, un apprendimento in gruppo, ivi inclusa la “classe rovesciata”, porre in essere una modalità di apprendimento laboratoriale e una didattica per scenari, realizzare un apprendimento intervallato e differenziato, valorizzare il dialogo euristico oltre al dentro la scuola, anche fuori di essa. Per fare ciò, tuttavia, occorre avere il desiderio profondo di autorinnovarsi, mettendosi in gioco e rimodulando il proprio modo di fare il professore, che non si può solo identificare nel buon uso delle neo-tecnologie.
In definitiva l’alunno è non solo oggetto, ma anche soggetto della sua formazione globale, e a maggior ragione lo studente con disabilità, che deve divenire consapevole che ce la può fare di autodeterminarsi e quindi non deve solo dimostrare di avere raggiunto l’acquisizione di OSA [conoscenze – il sapere – e abilità – il saper fare, N.d.R.] su cui verrà ad essere valutato.
In realtà si sente un forte bisogno, un’esigenza impellente, di una scuola al servizio della persona-alunno, che sappia “personalizzare” i percorsi, che non si fermi alle conoscenze e alle abilità, che pure devono essere presenti, ma miri allo sviluppo integrale della persona.
Occorre urgentemente che il Paese decida di percorrere un cammino utile per garantire ai cittadini e alle cittadine una scuola pubblica che sia degna della funzione che la Costituzione le affida. Per fare ciò necessita divenire consapevoli che formare le future generazioni è un lavoro che richiede la massima responsabilità e il massimo rispetto. Per riconoscere questo principio, come caratteristica peculiare della professione docente, vuol dire innanzitutto assumere un neo atteggiamento culturale: se è vero – cosa a cui non credo assolutamente – che “con la cultura non si mangia”, non credo che senza si proceda meglio e la lentissima, ma progressiva deriva dell’inclusione scolastica, a mio avviso ne è un segnale.
La prospettiva on-life è il neo scenario che si apre per tutti gli uomini? La neo-futura società ibridata fra analogico e digitale si identificherà con un potenziale e reale progresso? Sosterrà la crescita dei giovani? La tecnologia promuove la socievolezza, l’interazione superficiale, ma non la socializzazione (vicinanza, prossimità, solidarietà, compartecipazione, corresponsabilità sociale) e a noi insegnanti cosa viene chiesto? Conformatevi, il digitale è il futuro. Senza alcun confronto, senza alcun dibattito, senza permettere un minimo di dialettica, ci si deve conformare al pensiero neo-liberista.
Ma chi lo ha deciso che il digitale e le auto elettriche sono a impatto a zero sull’ambiente ovvero sono green? Un recente studio ha evidenziato che dalla produzione di un’automobile elettrica al suo smaltimento, l’impatto sull’ambiente è oggi decisamente più negativo della produzione e dello smaltimento di un’autovettura diesel. Altresì i danni indotti dal digitale sulle neo generazioni sono stati evidenziati nel Documento XVII n. 2 della VII Commissione Permanente del Senato di due anni or sono.
In piena psico-pandemia, tale Commissione, all’unanimità, non solo ha verbalizzato che «non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi… il contrario», ma al contempo la stessa Commissione ha affermato trattarsi di «giovani schiavi resi drogati e decerebrati: gli studenti italiani».
Dai colleghi a cui ho sollevato tale potenziale espandersi di una web dipendenza, e di come tale istanza invasiva possa pervadere le menti dei più giovani plasmandone lo spirito critico, mi sono sentito dare del tecnofobo e retrogrado. Oggi, noncuranti di quanto è stato rilevato, ovvero dei danni acclarati a discapito della nostra gioventù, si procede, a suon di miliardi, con il Piano Nazionle di Ripresa e Resilienza – che nella scuola è divenuto la spartizione della torta per pochi accoliti, meglio se benpensanti e allineati con il “capo“ – e con la transizione digitale.
A me sembra che, con docilità, ci stiamo facendo plasmare dalle neo tecnologie che stanno testimoniando il neo totalitarismo imperante cui siamo accondiscendenti. Verso dove ci si sta dirigendo, con l’on-life? Si fa un ragionamento in classe su questa rivoluzione digitale? Ma manco per niente: l’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è l’unico imperativo, lo vuole il globalismo.
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale che ora viene sostenuta e sponsorizzata (si sono tornati a fare convegni nelle scuole per testimoniare quanto sarà interessante il processo di insegnamento-apprendimento grazie ad essa) è veramente al servizio del pieno sviluppo della persona umana? Non sto qui sostenendo che essa sia nociva, ma temo che soddisferà bisogni tecnico-pratici e presumibilmente non potrà insegnarci ad essere umani.
Politicamente si è scelto che la scuola non sia più un luogo di cultura e crescita dell’individuo. Dobbiamo formare menti pensanti o asservite a un mercato del lavoro precario e guasto, ma tecnologicamente avanzato? Realisticamente va rilevato che oggi arrivano fondi destinati a finanziare progetti che però non sempre rispondono ai bisogni reali del sistema scolastico. Così, da un lato il personale riceve salari poco dignitosi e gli edifici permangono fatiscenti, dall’altro, però, ricevono monitor e neo tecnologia… la rivoluzione digitale 4.0 avanza. A chi giova?
Pur essendo grato alla nuova tecnologia per tutto ciò che ha apportato ad esempio in termini di compensazione di talune evidenti difficoltà presenti nell’area della disabilità, non mi piace la deriva che l’umano ha preso, spostandosi verso un transumanesimo “tecnologicamente corretto”, in cui alle persone si chiede di vivere “come le mangrovie” (vegetali che vivono in un ambiente ibridato fra acqua dolce e salata) ovvero in un ambiente ibrido fra reale e virtuale.
Concludo con una considerazione: il respiro corto e affannoso della politica si riverbera non solo nel non far evolvere la nostra scuola, sia frustrando coloro che all’interno di essa vi operano con dedizione, sia mortificando le future generazioni con una palese non formazione degli studenti al loro ruolo di cittadini responsabili capaci di sostenere un cambiamento e un rinnovamento esistenziale che valorizzi mente, corpo e cuore, ma ucciderà anche la speranza di un futuro migliore e la nuova tecnologia non ci salverà, tutt’altro: ci ingannerà!