Non è necessario appartenere a una categoria per poter scrivere, anzi parlare, di quella categoria o dell’argomento cui è legata. Sarebbe limitativo pensare che di maternità possano scrivere solo le mamme, quanto della luna occuparsi solo chi ci è stato. Tuttavia l’appartenenza è utile, quantunque la competenza resti indispensabile.
A tal proposito sono assai interessanti le riflessioni di Nicola Rabbi in merito alla ricerca della Reuters Institute for the Study of Journalism, che si è posta la questione di quanto le redazioni siano rappresentative della società di cui parlano. In sintesi: aiuterebbe avere più persone con disabilità nelle redazioni per parlarne più correttamente?
Nicola Rabbi è giornalista specializzato sui temi della disabilità e della cultura accessibile, formatore e consulente su questi argomenti per enti pubblici, associazioni, organizzazioni non goernative e lavora al CDH (Centro di Documentazione Handicap) di Bologna (Antonio Giuseppe Malafarina)
I giornalisti che lavorano nelle redazioni di quotidiani, televisioni, radio italiane a che strato sociale appartengono? Qual è il loro orientamento sessuale, religioso? Vi sono tra di loro persone con disabilità? Chi di loro ha genitori non nati in Italia o comunque di origine straniera?
Io me li immagino bianchi, appartenenti alla classe media, cisgender e senza disabilità. Forse il mio è un pregiudizio, che però potrebbe essere smontato con un questionario rivolto alle maggiori redazioni italiane, a cui si fanno domande per delineare il profilo del giornalista.
È quanto ha fatto la Reuters Institute for the Study of Journalism, un istituto di ricerca inglese che si occupa del futuro del giornalismo, di come evolve e cambia. Ha mandato il questionario in varie redazioni in Europa, con l’intento di capire se i giornalisti appartenevano a minoranze etniche, o erano di orientamento sessuale vario o se avevano qualche tipo di deficit.
Perché fare un’indagine di questo tipo? Per capire se chi scrive, i giornalisti, sono effettivamente rappresentativi della società in cui vivono. Chi scrive per i media cerca di raccontare la società e pensa anche di conoscerla. Ma se nelle redazioni ci fossero più giornalisti figli di persone immigrate o con disabilità, avremmo un racconto di queste realtà sociali sicuramente diverso.
Vivere in prima persona certe situazioni significa avere degli strumenti culturali migliori di altri, offrire una narrazione che discrimina di meno, che non gioca con i soliti cliché e non si adagia sui pregiudizi.
Sicuramente un professionista con disabilità qualificato sarebbe più propenso a chiedersi se quell’articolo sull’ennesima persona con disabilità eroe, «che è fonte di ispirazione anche per i normali», dev’essere pubblicato e in che modo. La sua appartenenza all’àmbito di riferimento, a rafforzamento della propria competenza, lo porterebbe a farsi domande che forse altri non si farebbero. Così come un redattore di cronaca con genitori tunisini, di fronte alla notizia di un crimine da parte di un magrebino penserebbe ai suoi amici di origine tunisina che onestamente lavorano in banca o in realtà associative, per calibrare ogni frase senza cadere nello stereotipo dell’immigrato delinquente a priori.
Non si può nemmeno idealizzare troppo lo scenario che ho descritto sopra, perché il lavoro di un giornalista viene influenzato da tante varianti, come l’orientamento politico del mass media per cui scrive, oppure possono intervenire ragioni di carriera professionale o la semplice pigrizia a deviare dal rigore dovuto.
Ad ogni modo, vivere in prima persona certe situazioni significa poter avere uno sguardo diverso che porta a idee nuove, cioè a fare meglio il proprio lavoro di giornalista. Più professionisti con disabilità nelle redazioni potrebbero migliorare la qualità della comunicazione in questo campo.