Quando si parla di disabilità è possibile andare così a ritroso nel tempo tanto da trovare spunti di riflessione persino nell’Antico Testamento. Nel Levitico, laddove si parla di Irregolarità, sta scritto: 16 Parlò ancora il Signore a Mosè, dicendogli: 17 «Di ad Aronne:- Se nelle famiglie della tua stirpe uno avrà qualunque difetto, non offrirà i pani al suo Dio, 18 né s’accosterà a servirlo; se cieco, zoppo, col naso piccolo o grande o storto 19 con un piede o una mano rotta, 20 se gobbo, guercio, con una macchia bianca nell’occhio, con scabbia persistente, con erpete per la persona, o con l’ernia… 21 Chiunque della discendenza di Aronne sacerdote abbia un difetto, non si accosterà ad offrire le vittime al Signore ne i pani al suo Dio. 22 Potrà tuttavia mangiare dei pani offerti nel santuario,23 a patto però che non entri nel Santo, né s’accosti, all’altare; egli è macchiato, e non deve macchiare il mio santuario. Io il Signore che li voglio santi».
Non sono un esegeta biblico… l’unico commento che mi viene è sic!
Non potendo, e non essendo per altro sempre necessario, iniziare tutte le volte dalle origini, propongo due anni da assumere, convenzionalmente, come punto zero di un ragionamento: 1975 e 1977.
Il primo è legato alla pubblicazione del “Documento Falcucci”, che costituisce la Magna Charta dell’integrazione degli alunni “portatori di handicap”: in essa sono contenuti i principi ispiratori della Legge 517/77 e della stessa Legge 104/92.
La senatrice Falcucci, ministro della Pubblica Istruzione dell’epoca, presiedette una commissione tecnica i cui membri (volendo usare un linguaggio ormai desueto) appartenevano al pensiero pedagogico cattolico, laico e socialista. Detta commissione fu incaricata di elaborare i tratti salienti di una scuola di nuova concezione più adeguata per tutti gli alunni, inclusi quelli “con handicap”.
Il secondo anno è legato alla pubblicazione della citata Legge 517/77 che, pur recando un titolo insospettabile (Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico), segnò l’inizio dell’inserimento degli alunni “handicappati” (questo era il corretto termine di allora) nelle classi comuni, determinando una svolta nella scuola e in tutto il tessuto sociale.
Sia al suddetto documento sia alla legge che ne seguì può essere riconosciuto un importante contenuto tecnico, sebbene necessitante di circolari applicative ed esplicative nonché di altri atti normativi.
Ho usato il termine “tecnico/tecnica” per sottolineare il fatto che la senatrice Falcucci e i membri della commissione da lei presieduta non erano anime belle che si nutrivano di enunciazioni di principio: erano persone solide, concrete e con i piedi per terra.
A tal proposito, pare necessario un inciso; che sia chiaro: i princìpi sono importanti – non sono acqua fresca -, di più, sono fondamentali, ma, non per un loro limite, bensì per la loro intrinseca natura, sono fatti per indicare la meta all’orizzonte e la direzione verso cui tendere, ma non dicono cosa fare domani.
Proprio per questa ragione, oltre ai princìpi, occorrono le norme tecniche, e la 517/77 e il documento di cui sopra, lo erano.
Tuttavia, in modo apparentemente dissonante a fronte di tanta concretezza, l’incipit del “Documento Falcucci” del ’75 sancisce quanto segue: «La preliminare considerazione che la Commissione ha ritenuto di fare è che le possibilità di attuazione di una struttura scolastica idonea ad affrontare il problema dei ragazzi handicappati presuppone il convincimento che anche i soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento devono essere considerati protagonisti della propria crescita. In essi infatti esistono potenzialità conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate degli schemi e dalle richieste della cultura corrente e del costruire sociale. Favorire lo sviluppo di queste potenzialità è un impegno peculiare della scuola, considerando che la funzione di questa è appunto quella di portare a maturazione, sotto il profilo culturale, sociale, civile, le possibilità di sviluppo di ogni bambino e di ogni giovane».
Il termine convincimento non ha niente di tecnico (da qui la dissonanza… apparente). Il convincimento non è una competenza che si acquisisce, non esiste alcun master che rilasci un attestato di convincimento, poiché i convincimenti sono fatti della stessa materia di cui son fatti i sogni: attengono ad una dimensione intima, sono le bussole che ci orientano ed esprimono il nostro modo di stare al mondo.
Ma nell’incipit viene usata anche una altra parola: presuppone. E quel presuppone sta a indicare che il convincimento non è un quid pluris, bensì una conditio sine qua non, ovvero: se quel convincimento non c’è, la cosa non funziona.
È una conclusione esagerata? No, se si prende atto di un banalissimo dato di fatto: non tutti i lavori sono uguali. Alcuni di essi possono prescindere dal convincimento o dallo stato d’animo di chi attende a quel dato lavoro. Ne fanno parte tutte quelle attività che si possono proceduralizzare.
Un impiegato addetto a un servizio (banche, poste, trasporti…) può anche non andare volentieri al lavoro, può essere scorbutico e scostante con i cittadini; ma, se osserva scrupolosamente la procedura connessa a quella particolare mansione, il servizio ad essa connesso va a buon fine.
Idem per la produzione di manufatti. Può un pacifista lavorare in una fabbrica di armamenti? Assolutamente sì: magari soffrirà di insonnia o di qualche altro malessere psicosomatico, ma, anche lui, se osserverà scupolosamente la procedura relativa alla costruzione di un’arma, alla fine quell’arma sarà perfetta nonostante i suoi tormenti interiori.
Ci sono lavori, invece, dove, nel bene e nel male, il convincimento o lo stato d’animo di chi è preposto ad una certa attività fa la differenza. Sono tutti quei lavori dove la relazione, il rapporto interpersonale giocano un ruolo rilevante, tanto da determinarne il risultato in un senso o nell’altro.
Qualcuno dirà: la professionalità può compensare eventuali deficit di convincimento. Chi lo asserisce trascura o sottovaluta l’importanza dell’effetto Rosenthal (detto anche pigmalione). Per quanto attento e in buona fede sia l’operatore in questione, se egli non è intimamente convinto, ossia se non crede in ciò che fa, l’effetto Rosenthal lo tradirà con inevitabili ripercussioni negative sul risultato finale.
Ciò che è peggio è che non verrà meno solo una buona pratica ai danni di un alunno, un paziente o un qualunque fruitore di servizi. Quando questi operatori saranno mille, diecimila e più, a fronte di scarsi o discutibili risultati, si invocheranno altre norme o l’aggiunta di qualche comma, altri protocolli e, naturalmente, altre risorse il cui potere di incidere su barcollanti convincimenti sarà scarso o nullo… e, siccome non c’è limite al peggio, quando gli operatori scarsamente o per nulla convinti raggiungeranno la massa critica (complice qualche governo dal pensiero debole, ma sensibilissimo ai sondaggi), si comincerà a dire che la politica dell’inclusione va ripensata, che in fondo negli istituti e nelle scuole speciali non ci stavano poi così male e poi che è meno costoso metterli tutti insieme e poi (detto fra noi) quando devi organizzare una gita scolastica non ti devi dannare a cercare le strutture recettive accessibili e i pullman con le pedane e il personale di supporto e poi le “giornalate” dei genitori se i loro figli rimangano a casa e poi, qualche volta, perfino le interpellanze parlamentari… e infine si riterrà necessario dare a tutto un taglio… visto che, in fondo, in quasi tutti gli Stati del Nord Europa ci sono ancora gli istituti e le scuole speciali…
Pessimista? No, perché in fondo penso che questa deriva, sebbene in atto, si possa ancora arginare… ma non con altre leggi, altre risorse o spaccando il capello in quattro su quanti crediti formativi debba avere questa o quell’altra disciplina formativa.
C’è un tempio dedicato al culto zoroastriano, dove un fuoco, si dice, arde incessantemente da oltre 1.500 anni. Se ciò è possibile, è perché ci sono delle persone che, nel corso dei secoli, hanno accudito quel fuoco impedendogli di spegnersi.
Ecco, credo che anche i convincimenti, al pari di un fuoco, vadano accuditi, protetti, difesi e tramandati… testimoniandoli.
Ringraziamo Fernanda Fazio per la collaborazione.