Cronache dallo spettacolo: storie ordinarie di retorica abilista

«Comunicare la disabilità – scrive Stefania Delendati -: conta come si fa oppure tutto va bene purché se ne parli? Domanda spontanea di fronte a tre recenti notizie di cronaca dello spettacolo, da “Ballando con le stelle” a “Italia’s Got Talent”, fino a “Miss Italia”, dove, pur avendo la disabilità uno spazio pubblico in cui esprimersi, la questione sostanziale ha riguardato il come quelle partecipazioni sono state proposte, e da questo punto di vista non è stato fatto nessun passo avanti. La cornice, infatti, è sempre stata all’insegna della retorica abilista»

Abilismo in Treccani.it

Il 17 febbraio 2019 l’abilismo è stato “il neologismo della settimana” nella versione online dell’Enciclopedia Treccani

Comunicare la disabilità: conta come si fa oppure tutto va bene purché se ne parli? Domanda spontanea di fronte a tre recenti notizie di cronaca dello spettacolo.
Parto dall’ultima, la partecipazione come “ballerino per una notte” nel programma di Raiuno Ballando con le stelle di Andrea Antonello, giovane trentenne con autismo.
Insieme a lui, il padre Franco, che ha raccontato la loro storia, dalla diagnosi ad oggi. Dopo l’esibizione di Andrea, ha preso il via il carosello dei cliché, magari con tutte le buone intenzioni del mondo, ma con la consueta oscillazione tra il pietismo e l’esaltazione.
L’aspetto più irritante, a mio parere, è stato il tono con cui si parlava ad Andrea, trattato come un bambino mentre è un uomo. Andrea lo sa, quando il padre gli ha domandato di presentarsi, lui ha detto la parola “autonomo” anziché “autistico”, non una battuta involontaria di cui sorridere, ma il segno di una precisa consapevolezza di sé.
Ancora non si è capito che le persone con disturbi dello spettro autistico e, in generale, quelle con disabilità cognitive, non devono essere infantilizzate ma incluse, e l’inclusione si allontana un po’ ogni volta che ci si rivolge loro come se fossero eterni bimbi.
Di tutto, oltre all’autopresentazione di Andrea, c’è da salvare l’accenno del papà al tema del “Dopo di Noi”, quando ha manifestato la preoccupazione di tutti i genitori riguardo il destino dei figli con disabilità quando loro non ci saranno più a supportarli nella vita quotidiana.

Le altre due notizie mi hanno posto un quesito più complesso: quando una persona con disabilità riceve un riconoscimento nell’àmbito di una manifestazione dove partecipano anche concorrenti senza disabilità, in quale misura la sua “diversità” influisce sul verdetto finale?
Veniamo ai fatti. L’ultima edizione della trasmissione di Canale 5 Italia’s Got Talent è stata vinta da Francesca Cesarini, sedicenne atleta di parapole, la versione paralimpica della pole dance. Francesca è nata senza le mani e porta una protesi a uno degli arti inferiori.
Pochi giorni dopo Jennifer Cavalletti, diciannovenne con un disturbo dello spettro autistico, è stata proclamata Miss Coraggio 2023 nell’ambito del concorso Miss Italia.
Appena appreso di queste vittorie mi sono detta «ci risiamo», perché la narrazione degli “eroi/eroine disabili”, di pari passo con le “povere vittime disabili”, rimane la via privilegiata per aumentare l’audience.
Ho letto commenti che sottolineavano come Francesca avrebbe vinto non per bravura, ma in ragione delle sue condizioni fisiche. Ho cercato online la performance della vincitrice e ho apprezzato la coreografia eseguita con movimenti adattati a lei, non per questo meno spettacolari. Parere personale, tra l’altro espresso senza amare particolarmente la pole dance, e in questo la mia disabilità e quella della concorrente non c’entrano nulla.
Francesca è senza dubbio una campionessa con i fiocchi, vincitrice dei campionati italiani di parapole e del Mondiale nel 2021. La disabilità ha un ruolo centrale nel suo modo di fare sport, è inutile girarci intorno, con la sua allenatrice è alla ricerca continua di nuove tecniche non standard per danzare, un lavoro che richiede grande impegno non soltanto fisico, unito ad un talento innegabile.
Quindi perché non avrebbe dovuto vincere? Tra l’altro nelle trasmissioni come Italia’s Got Talent ogni anno si vedono concorrenti con disabilità, ma raramente raggiungono il podio. Piuttosto si potrebbe obiettare che dei campioni del mondo, con o senza disabilità, non dovrebbero partecipare a programmi dedicati a talenti sconosciuti perché risultano avvantaggiati.
Quel che stride è il tono del racconto che ne è stato fatto, gli occhi lucidi dei giudici, la commozione del pubblico, reazioni tipiche di chi vede la disabilità come un qualcosa che va premiato a prescindere. Così si rischia di lasciare nella vincitrice stessa il dubbio che quel riconoscimento sia stato assegnato “per pietà”.

Nella vicenda di Miss Coraggio prevale invece una sensazione mortificante. La motivazione della fascia a Jennifer Cavalletti dice che «la ragazza non aveva vinto alcun titolo, ma aveva conquistato e commosso il pubblico con la sua storia. All’età di due anni e mezzo i medici dissero che Jennifer non avrebbe parlato né camminato. Oggi, invece, fa tutto».
Per restare ai fatti, Jennifer si è presentata a Miss Italia chiedendo di essere giudicata per la sua bellezza. Pareva forse “brutto” mandarla a casa senza un premio, e si è pensato a Miss Coraggio, una categoria fuori concorso, come quando nel 1950 per Sophia Loren venne inventato il titolo di Miss Eleganza. Ma se allora si volle comunque premiare la bellezza di una concorrente, restando quindi in linea con il concorso che da sempre, a torto o a ragione, valuta in base a canoni puramente estetici, nel caso di Jennifer si è tentato in maniera maldestra di fare inclusione, finendo per aumentare il divario tra la disabilità e il mondo “normale”.
Sarò giudicata da alcuni insensibile, ma se Jennifer non era abbastanza bella per diventare Miss Italia o vincere un’altra fascia, non sarebbe stata vera inclusione eliminarla come una qualunque partecipante?

Esiste una parola per definire il modo in cui sono state raccontate queste vicende: abilismo, vale a dire quell’insieme di atteggiamenti e comportamenti, talvolta impliciti, che hanno come conseguenza la creazione e il perpetuarsi di condizioni di svantaggio legate alla disabilità.
L’abilismo, insignito del titolo di “neologismo della settimana” dalla versione online dell’Enciclopedia Treccani il 17 febbraio 2019, assente dal dibattito pubblico (perfino il mio programma di riconoscimento vocale non conosce questa parola, ho dovuto batterla a mano con la tastiera su schermo!), è invece il pane quotidiano delle persone con disabilità.
Differentemente da altre forme di discriminazione, come il razzismo, il sessismo o l’omofobia, che hanno dinamiche più apertamente ghettizzanti, l’abilismo assume sembianze sottili ma non meno serie. Si parla in generale di indifferenza, ignoranza, superficialità, si esprime anche con frasi paternaliste, nell’inspiration porn figlio dell’abilismo, ovvero il considerare una persona con qualsiasi tipo di disabilità “un supereroe” perché semplicemente vive (anche giudicare una persona “speciale” implica una discriminazione, veniamo discriminati se non possiamo essere apprezzati o criticati per ciò che siamo, pregi e difetti), nell’incapacità di andare oltre gli stereotipi, nell’accettazione bonaria di espressioni quali “mongoloide”, “handicappato”, “nano”, senza capire quanto sia grave che nel comune modo di esprimersi termini desueti riferiti alla disabilità siano usati come un insulto.
Dalla pubblicazione Nulla su di noi senza di noi. Una ricerca empirica sull’abilismo in Italia (FrancoAngeli, 2022), la prima indagine sul tema nel nostro Paese, si evince che il 56% degli intervistati ritiene che le persone con disabilità siano un esempio, ma il 32% pensa che per un genitore la cosa peggiore sia avere un figlio con disabilità, il 39% che bambini con disabilità sensoriali debbano frequentare scuole a loro dedicate, mentre il 13% sarebbe preoccupato se il proprio figlio avesse come migliore amico un bambino con disabilità intellettiva.
Dati che vanno di pari passo con l’indagine dell’Eurobarometro secondo cui il 9% degli italiani non si sentirebbe a proprio agio con un Presidente della Repubblica con disabilità (un punto in più rispetto alla media europea), il 13% avrebbe difficoltà ad accettare un partner con disabilità per i propri figli, il 6% (due punti in più della media dell’Unione Europea) sarebbe a disagio se ogni giorno dovesse interagire con un/a collega con disabilità, una rappresentazione, quindi, che parla anche di diffidenza e rifiuto.

Andrea, Francesca e Jennifer sono l’ultimo emblema di questa distorta percezione. Anche se alcuni hanno salutato le loro partecipazioni come un successo, perché la disabilità ha avuto uno spazio pubblico in cui esprimersi, la questione sostanziale rimane il come quelle partecipazioni sono state proposte, e da questo punto di vista non è stato fatto nessun passo avanti. La cornice è sempre fatta di retorica abilista.

Il presente contributo di riflessione è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Cronache di ordinario abilismo: tre storie che (involontariamente) aumentano il divario”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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