A Rimini, nel corso della sessione plenaria conclusiva del recente Convegno Internazionale del Centro Studi Erickson La Qualità dell’inclusione scolastica e sociale è stata presentata una mozione finale intitolata Andare oltre per una professione docente inclusiva che superi separazioni e deleghe in cui si auspica un netto cambio di paradigma verso una nuova organizzazione scolastica in cui tutti i docenti siano impegnati, in modo polivalente e flessibile, a svolgere le proprie attività educative in parte sulle attività disciplinari e in parte sul sostegno didattico. Una rivoluzione che, al netto di ogni sconcerto iniziale od opposizione più che probabile, è necessario spiegare nel suo significato pedagogico più profondo.
Intanto, va affrontata la questione, sempre rimasta sottotraccia, della valutazione della qualità dell’inclusione scolastica. Nel Decreto Legislativo 66/17 (articolo 4, comma 1) si legge: «La valutazione della qualità dell’inclusione scolastica è parte integrante del procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche previsto dall’articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80». Tale valutazione, che avrebbe dovuto essere predisposta dall’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione (INVALSI), non ha, a distanza di anni, mai visto la luce.
È questo un dato di fatto riscontrabile nella pratica operativa di chi, come la sottoscritta, vive ogni giorno le difficoltà reali derivanti da una mancanza di visione generale dell’inclusione scolastica, così come, molto spesso, dell’applicazione delle stesse leggi vigenti in materia.
L’isolamento delle figure professionali “specifiche”, come l’insegnante specializzato su sostegno e l’assistente specialistico per l’autonomia e comunicazione, cui troppo spesso ancora viene delegata la funzione di inclusione scolastica degli alunni e delle alunne con disabilità, ad esempio. Che spesso sfocia nella compilazione solitaria del PEI (Piano Educativo Individualizzato), laddove la normativa ne sottolinea la caratteristica collegiale e progettuale.
È l’incapacità di fare rete e condividere obiettivi educativi a breve e lungo termine, non solo con le famiglie e il territorio, come sarebbe fondamentale, ma anche all’interno degli stessi Consigli di Classe.
E, infine, la diffusa misconoscenza di metodologie didattiche innovative ed inclusive e delle tecnologie più adeguate a permettere a tutti e tutte una più proficua esperienza scolastica.
In un mio articolo dello scorso anno, mi chiedevo se il vertiginoso aumento degli insegnanti specializzati su sostegno (arrivati ormai a circa il 25% del totale degli insegnanti) e di assistenti specialistici all’autonomia e comunicazione (passati dal numero di 4.800 del 1998 agli oltre 60.000 del 2019) corrisponda ad una migliore e più efficace inclusione scolastica. Credo che sia sotto gli occhi di tutti come ciò non sia avvenuto, evidentemente.
Troppo facile, pensando al presente, indicare le criticità dell’introduzione della “cattedra inclusiva” e riproporre, invece, gli aggiustamenti che da anni vengono perseguiti senza ottenere un miglioramento della situazione di fatto che, anzi, sta progressivamente degradando verso una deriva che potrebbe portare nuovamente alle “scuole speciali”, magari organizzate in diverse modalità, e che potrà essere contrastata solamente con una proposta forte, di lungo periodo, radicalmente innovativa.
Sarebbe limitante approcciare la questione della proposta innovativa della cattedra inclusiva solo sulla base del “prodotto” finale, se non si ricercano le basi pedagogiche che sottostanno a questa proposta.
La scuola italiana, come ogni sistema gerarchicamente organizzato, produce “ruoli”, che hanno un senso organizzativo di mantenimento omeostatico del sistema stesso. Troppo spesso, dunque, il ruolo occupato diventa una questione di “potere” che determina il peso di un professionista e lo ingabbia in procedure e posizioni spesso preconcette. Ciò che si perde, allora, è una visione di insieme, partecipata, rispetto a quella che invece è la funzione primaria, costituzionalmente garantita, che è quella educativa, ovvero l’obiettivo finale verso cui tendere. Ossia quel filo rosso che dovrebbe unire e coinvolgere in uno sforzo comune tutti coloro che hanno il compito istituzionale di garantire equità dell’istruzione per tutti gli studenti e le studentesse.
Ecco, dunque il senso di quell’Andare oltre: superare la logica imperante della “delega” riguardante la disabilità, che implica un coinvolgimento attivo, personale e politico nella creazione di una reale cultura dell’inclusione che coinvolga la comunità educante tutta attraverso una riorganizzazione di ruoli e relative funzioni e che riguardi tutto il corpo insegnanti.
Superare le logiche di parte, gli steccati gerarchici, i sistemi di appartenenza/individuazione da cui derivano gli opposti fenomeni di esclusione/estraneità, è il solo modo di fare rete, di mettere in campo tutte le professionalità allo stesso livello per una cooperazione reale verso il comune obiettivo: un futuro inclusivo per tutti e tutte.