Era l’ultimo anno della scuola dell’infanzia. Come sempre, venne organizzato uno spettacolo: il tema era il mare. Fu una manifestazione molto impegnativa che durò un’ora e mezza. Mio figlio ebbe una breve apparizione di pochi minuti. Ma quanta cura, quante energie profuse affinché potesse partecipare al meglio delle sue possibilità! Essendo affetto da tetraparesi spastica, non poteva camminare o anche semplicemente stare in piedi e allora, dopo infinite prove, venne deciso che sarebbe stato accovacciato dentro un cesto, mimetizzato da scoglio; lui avrebbe fatto la parte della conchiglia. Nemmeno la posizione seduta era completamente acquisita, ma, grazie ad un ausilio particolare, mio figlio poté stare seduto nel cesto da solo, anche se insegnanti e assistenti erano vigili e pronti ad intervenire in caso di bisogno.
A distanza di trenta e passa anni, a tutt’oggi il ricordo di quello spettacolo è ancora vivo e mio figlio si emoziona nel rivedere quel vecchio VHS.
Anni dopo, alle elementari, in una circostanza simile, le due insegnanti di classe non trovarono di meglio che allestire un girotondo degli alunni intorno a mio figlio seduto sulla sua carrozzina il quale, per tutta la durata del girotondo andò in iperestensione con tutto il corpo.
Quelle insegnanti quanto tempo avranno investito per allestire quel patetico girotondo? Non credo più di 7-8 minuti (prove incluse).
Cosa può determinare tanta distanza nell’approccio ad un evento simile quale può essere una festa di fine anno scolastico? È un fatto di formazione? Anche… ma non solo.
Facciamo un esercizio di fantascienza e riavvolgiamo il nastro del tempo, torniamo indietro di trent’anni e mettiamo in formazione le insegnanti di quella scuola elementare (quelle del girotondo!). Per andare sul sicuro faremo sì che abbiano il meglio dei professori sulla piazza. Per maggior scrupolo ancora, quelle maestre (sempre quelle del girotondo) faranno dieci esami scritti e dieci orali affinché sia certificato che hanno proprio capito cosa sia l’inclusione.
Attraverso questo fantasmatico viaggio nel tempo, trent’anni dopo incontreranno (come fosse la prima volta) mio figlio. Abbiamo la certezza che saprebbero allestire qualcosa di meglio di un patetico girotondo? Forse… ma non è detto. Quella certificazione accademica attesterebbe solamente che loro sanno, il che non è poco, ma non è sufficiente.
Quando chiesero a Don Milani cosa bisognava fare per allestire una scuola come quella di Barbiana, lui rispose: «la domanda non è cosa bisogna FARE, ma come bisogna ESSERE».
Questo assunto non vuole ignorare e sottovalutare l’importanza delle competenze, delle leggi e delle risorse – tutti elementi assolutamente indispensabili – ma vuole mettere in evidenza che il tema dell’inclusione non è un fatto meramente tecnico che si impara sui libri, né un diritto che può essere sancito per legge, bensì un fatto etico che implica una visione del mondo e un impegno politico trasversale che va oltre le mura scolastiche.
Per rimarcare questo concetto, riporterò altri due esempi.
La partecipazione di uno studente con disabilità ad una gita scolastica è un diritto esigibile in quanto è garantito da norme, regolamenti e accordi di programma, ma la qualità di quella partecipazione, ovvero se vi partecipa “incapsulato in una bolla” di cui si occupano solo gli addetti ai lavori (obiettori, assistenti ecc.) o se vi partecipa realmente incluso in un gruppo goliardico tipico delle gite scolastiche, con il quale interafisce e di cui si sente parte a tutti gli effetti, non scaturisce da una legge, ma da un clima coltivato da adulti (appartenenti alla famiglia, alla scuola, al quartiere ecc.), che hanno una visione del mondo e che sanno trasmetterla alle generazioni che succedono loro.
Altro esempio, l’ABA (Analisi Applicata del Comportamento) per i bambini autistici e gli strumenti dispensativi e compensativi per color che hanno i DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), se, allo stato dell’arte, sono ritenuti gli strumenti più idonei per facilitare gli apprendimenti in certe situazioni, è auspicabile che se ne diffondano le pratiche, e tuttavia queste pratiche, di per sé, assicurano veramente che quei bambini autistici e quei bambini con DSA vengano invitati ai compleanni dei loro compagni e che questi ultimi vadano al loro?
Le probabilità che questo avvenga aumentano se la scuola è una comunità educante, parte integrante di un quartiere, che sia esso stesso una comunità educante, capace di promuovere trasformazioni profende nel tessuto sociale . Ecco perché affermo che l’inserimento e le competenze sono un fatto tecnico, ma che l’inclusione è un fatto politico.