Nel celebrare Don Milani ritengo utile una breve digressione a carattere generale. Naturalmente procederò per schemi che semplificano la realtà la quale è sempre infinitamente più complessa e sorprendentemente più imprevedibile.
Schematicamente parlando, dunque, si può dire che il rapporto fra le leggi e i comportamenti individuali e collettivi da normare genera tre macrocategorie di comportamenti:
– Comportamenti di coloro che quelle leggi le hanno anticipate nelle prassi quotidiane, perché già parte della loro visione del mondo.
– Comportamenti di coloro che si trovano disorientati e impreparati a recepire la portata di quella determinata legge; in tali casi questi individui seppure in buona fede, oppongono a quella legge una resistenza passiva di pura inerzia che ne rallenta e talora ne ostacola l’applicazione.
– Comportamenti di coloro che si oppongono strenuamente a quella legge, perché convinti del contrario di quanto espresso da essa. In questo caso, costoro esercitano una resistenza attiva, tesa, scientemente, ad ostacolarne l’applicazione.
Gli esempi potrebbe essere molteplici… ne considero due: la Legge 180/78 e la Legge 517/77.
Quando venne varata la Legge 180/78, ben diverso fu il comportamento dei medici psichiatri di Trieste che collaboravano con Franco Basaglia, ispiratore di quella norma, da quello dei medici che si trovarono spiazzati e disorientati: gli atteggiamenti di quest’ultimi, densi di dubbi e perplessità, è verosimile abbiano avuto ripercussioni negative sui loro pazienti, nonostante quei medici potessero affermare, “sulla carta”, che stavano applicando i princìpi della nuova psichiatria.
Ancora più negative furono le ripercussioni esercitate da quei medici che avversavano la legge, perché convinti di un’impostazione clinica diversa da quella di Basaglia.
Considerazioni analoghe si possono fare per la Legge 517/77. Anche in questo caso, sempre schematicamente parlando, si possono infatti ritrovare le tre modalità di approcciarsi al tema dell’inserimento/integrazione/inclusione degli alunni/studenti con disabilità.
Don Milani e molti altri non avevano bisogno della Legge 517, perché il loro modo di concepire la scuola era già attestato su quella lunghezza d’onda… anzi, è verosimile pensare che una volta entrata in vigore la Legge 517, con il loro modo di essere visionari, andarono oltre e immaginarono qualcosa di ancora più avanzato.
La realtà diventa, momento per momento, luogo per luogo, circostanza per circostanza, il risultato mutevole di questa ipercomplessa dialettica fra i vari comportamenti soggettivi, individuali e collettivi. A volte prevalgono gli uni, a volte gli altri, e tutti quanti interagiscono con le condizioni oggettive rappresentate dalle varie realtà contestuali locali e internazionali (Regioni d’Italia arretrate, altre più avanzate, quartieri degradati, altri con una buona qualità della vita, leggi che cambiano, governi che si alternano ecc.).
Questa ipercomplessa dinamica si rinnova e si rimescola con l’avvento di nuove generazioni di insegnanti, genitori, operatori sociali, nonché di Associazioni, con la riproposizione, talora, di tesi antiche logore e superate ritenute innovative.
Tempo fa un’Associazione di genitori con figli con disabilità annunciò sulla stampa in modo trionfalistico l’apertura di un centro diurno in un’amena e bucolica struttura rinascimentale, con tanto di parco annesso, avuta in comodato d’uso, ubicata fuori città (sic!).
L’inaugurazione vide la presenza raggiante di sindaci, assessori, esponenti regionali e tagli di nastri… Ma, viene da chiedersi, l’inclusione forse consiste nell’essere prelevati al mattino dalla propria abitazione, dal proprio quartiere, ed essere condotti, non da un pullman di linea… (hai visto mai!). ma da un pulmino ad hoc, o “peggio mi sento”, da un’ambulanza riadattata al trasporto di persone con disabilità, in un eremo dorato dove trascorrere gran parte della giornata? Certo, i centri diurni si dicono “aperti” e sicuramente lo sono, ma a senso unico. Da quell’eremo dorato gli ospiti potranno uscire (in gruppo) con il pulmino e le ambulanze di cui sopra, per raggiungere il mercato che si svolge tutti i venerdì in quella determinata piazza. O (sempre in gruppo) recarsi in altri luoghi di aggregazione, ma sempre a ranghi serrati in una sorta di “capsula” priva di osmosi con il mondo esterno. Dubito che un signore distinto suoni al portone di quel centro diurno e dica: «Buon giorno, sono venuto a prendere un caffè da voi, posso?». O che un gruppo di studenti si presenti, dicendo: «Oggi siamo venuti a studiare da voi, dove possiamo accomodarci?». Oppure: «Facciamo una festa; siete dei nostri?». A tratti mi viene lo sgomento al pensiero che ogni piccolo e faticosissimo passo avanti sul cammino dell’inclusione venga vanificato da cento passi indietro che ti riportano a pratiche che credevi superate e che. invece, si ripropongono come in un eterno ritorno. Ma poi, in fondo al vaso di Pandora rimane la speranza che talora scaturisce da un fatto di cronaca, altre volte da un evento di intrattenimento…
C’è una poetica scena del film Mission, dove, nonostante non venga proferita alcuna parola, nell’arco di una manciata di secondi viene raccontato tutto il senso del film stesso: un adolescente indigeno, insieme ad altri bambini sopravvissuti al massacro perpetrato dai conquistadores (con l’avallo del governo portoghese, di quello spagnolo e di Santa Madre Chiesa). si allontana su una canoa abbandonando il villaggio ormai distrutto, per ritornare nella giungla, ad un tratto il ragazzo scorge qualcosa che galleggia sul pelo dell’acqua: era un violino, per altro rotto, uno dei tanti strumenti musicali che gli indigeni avevano imparato a costruire e a suonare in maniera celestiale, grazie all’opera evangelizzatrice del padre missionario gesuita che li aveva istruiti. Anche quest’ultimo morirà trucidato dalla “ragion di Stato” nell’atto di celebrare la sua ultima messa. Quell’adolescente, nel mettersi in salvo, non si preoccupa di recuperare del cibo o delle armi per cacciare; si avvicina con la canoa al brandello di violino, lo afferra e lo porta con sé, perché ne aveva compreso l’importanza… Basta che anche uno solo capisca e si può sempre ricominciare.
Noi che crediamo nella visione di Don Milani, oggi lo celebriamo, consapevoli che non lo facciamo con il vento in poppa, ma comunque tentiamo di accudire quel fuoco perché non si spenga.
Anche questa nottata passerà.
Considerazione a margine: nel piccolo Comune dove abito, anni fa venne costruita una struttura che tuttora funge da centro di aggregazione (il nome glielo hanno assegnato gli alunni di una scuola elementare a seguito di una gara bandita dal Comune e il nome che venne dichiarato vincitore fu Le creste). Io personalmente darei all’architetto che lo ha progettato il Premio Pritzker (ritenuto l’equivalente del Nobel, premio quest’ultimo che non contempla la categoria degli architetti). L’ubicazione, infatti, ma soprattutto la struttura architettonica di questo luogo, che vede un sapiente accostamento di una biblioteca, di un bar, e di alcuni locali polifunzionali, limitrofi ad altri spazi pubblici attrezzati, rendono questo ambiente un luogo antropologico che si contrappone ai non luoghi (termine coniato da Marc Augé) sempre più pervasivi, invasivi e subdoli, perché, quando vi entri, frastornato da un’atmosfera da luna park, non ti accorgi che in essi le relazioni umane muoiono un po’ ogni giorno…
Alle Creste, invece in qualunque ora è facile trovare genitori con i bambini che si intrattengono in un posto accogliente, anziani che leggono il giornale, studenti che si danno appuntamento per studiare, ragazzini che si ritrovano per giocare e fare merenda, avventori che si fermano per un caffè. Per essere perfette, alle “Creste” mancano solo i “delfini”…
L’etologo Dànilo Mainardi ha descritto il comportamento dei delfini allorché uno di essi si ammala. Essendo un mammifero, il delfino ha bisogno di emergere dall’acqua per respirare l’ossigeno dell’aria e poiché è indebolito dalla malattia, non ce la fa ad emergere tutte le volte che è necessario; ecco quindi che intervengono altri due delfini del branco i quali lo affiancano sollevandolo letteralmente, consentendogli di emergere e di respirare. Tutto questo, però, è stancante anche per i delfini soccorritori e allora si danno il cambio con un’altra coppia di delfini, organizzando dei veri e propri turni.
Ecco, mi piacerebbe che alle Creste una coppia di “delfini” (umani), magari attraverso una Banca del Tempo opportunamente coordinata, assicurassero la loro presenza in alcuni momenti strategici della giornata, e quando entra una persona con disabilità, lo affiancassero perché anche lei potesse “respirare”.
Centri diurni? No, grazie. Dieci, cento, mille luoghi come le Creste… con “delfini”.