Nel 2001 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha equiparato il diritto alla salute sessuale ai diritti umani in generale, definendolo come «un aspetto centrale dell’essere umano lungo tutto l’arco della vita». Una dimensione intima che si esprime attraverso pensieri, desideri, valori, comportamenti e relazioni, influenzata da fattori sociali, psicologici, culturali e religiosi.
Ecco, tratteremo qui appunto le “influenze” che ancora determinano il rifiuto nell’immaginario collettivo della sessualità e del diritto ad un’affettività appagante per le persone con disabilità, ancora viste come “corpi non conformi”, non desiderabili e non in grado di provare determinate pulsioni del tutto naturali.
Ne abbiamo parlato con Sandra Negri, coordinatrice del gruppo educativo Progetto Calamaio della Cooperativa Accaparlante di Bologna, e con Martina Palmieri, regista di Gruppo Elettrogeno Teatro, a margine della mostra fotografica A corpo libero. Esplorazioni sul desiderio e del talk Racconto a più corpi, tenutisi recentemente nel capoluogo emiliano all’interno del Gender Bender International Festival [se ne legga già sulle nostre pagine a questo e a questo link, N.d.R.].
Gli eventi, curati appunto dalla Cooperativa Accaparlante, insieme a Gruppo Elettrogeno e a Blubanana Studio di Fotografia, sono stati la tappa finale di un laboratorio che ha esplorato il tema dell’identità sessuale delle persone con disabilità affidandosi al linguaggio teatrale.
Quello della sessualità è uno degli argomenti da quarant’anni al centro delle attività del gruppo educativo della Cooperativa Accaparlante, di cui attualmente fanno parte circa venti animatori con disabilità e otto educatori che lavorano «su di sé e sulla conoscenza e consapevolezza di chi siamo, come siamo, quali sono le nostre risorse e le nostre difficoltà. E quali sono i nostri bisogni, desideri e sogni», spiega Sandra Negri.
Un luogo “privilegiato” per capire non soltanto gli stereotipi sociali che ruotano intorno al corpo disabile, ma anche i tabù che i diretti interessati hanno verso questo aspetto della loro vita così legato a luoghi comuni consolidati che accomunano le persone con disabilità a creature asessuate, rifiutando qualsiasi forma di attrazione, figure prive di un genere definito, quando non va dimenticato che le persone con disabilità come tutti possono appartenere a qualsiasi orientamento sessuale e relazionale. «Per quanto riguarda il nostro gruppo», dice Sandra, «posso affermare che c’è una discreta quantità di persone che non si concede nemmeno di pensarsi attraente. Tantomeno in un approccio seduttivo o addirittura in coppia. Molto forte è il condizionamento sociale e soprattutto familiare. Talvolta le relazioni affettive e sessuali vengono percepite come pericolose perché mettono le persone nel rischio di soffrire, di essere rifiutate, o lasciate. Senza considerare che questo è un rischio in cui tutte le persone, di qualunque “categoria”, può-o-meglio-dovrebbero incorrere. Per crescere, per vivere».
Questa volta, dunque, si è scelta l’arte del teatro per esprimere ciò che non ha una forma, e partner è stato, come detto, il Gruppo Elettrogeno, compagnia che, tra i tanti progetti, realizza azioni di sensibilizzazione su diversi temi sociali, rivolti a persone con disabilità sensoriale, intellettiva, fisica e con disturbi dello spettro autistico.
Palcoscenico e sessualità, come può questo connubio aiutare una persona a comunicare i propri bisogni? Lo chiediamo a Martina Palmieri: «Ipotizzo che sia possibile far nascere la pratica teatrale proprio dagli elementi poco chiari sulle persone coinvolte, dagli effetti collaterali di un lavoro che mette in campo gli strumenti propri del teatro, ma che poi è capace di rimodulare il tipo di lavoro e di linguaggi, seguendo con cura le parole, gli sguardi, le resistenze, le conquiste fatte dentro un tracciato di carne e vissuti decisamente travolgenti nel dichiararsi, ma altrettanto complessi da maneggiare. Da questa premessa emergono naturalmente l’affettività e il desiderio sessuale come espressioni che fanno parte dei processi creativi».
Si sono svolti due cicli di incontri, una ventina i partecipanti ad ogni ciclo, «l’occasione per riscrivere lo spazio scenico, che si piega così, creativamente, alle necessità di chi vuole prendersi quello spazio», puntualizza la regista, che da anni lavora con performer ciechi e ipovedenti.
Immaginiamo che all’inizio ci fosse un po’ di disagio, come si è stemperato? «Nel contesto teatrale, soprattutto all’inizio, non si parla di sessualità; eppure alcuni elementi (come taluni gesti, parole) hanno consentito ai partecipanti di sperimentare un modo nuovo di sentire il proprio corpo dentro l’azione teatrale».
Martina racconta che da parecchi anni lavora con i performer del Gruppo Elettrogeno «in modo che siano loro a facilitare le azioni di cui si compone ogni incontro laboratoriale: chiedo loro di partecipare in prima persona e, contemporaneamente, posso suggerire loro parole, gesti, intenzioni. In questo modo possono esprimere, sprigionare, sensualità, desideri sessuali e anche il modo in cui vogliono essere amati».
Tatiana Vitali, una delle partecipanti al progetto, ha affermato che «esprimere le emozioni, lasciar parlare il mio corpo, è importante perché altrimenti mi fa esplodere. Così alla fine del laboratorio… mi è venuto da piangere di gioia». Segue il commento di Camilo De la Cruz: «Ci siamo abbracciati, tenuti la mano, è stato bellissimo per me».
Può dunque il corpo delle persone con disabilità concepirsi come desiderante e desiderato e non solo come destinatario di cura e di assistenza? Perché la sessualità non si esaurisce nella relazione con l’altro, ma al contrario riguarda prima di tutto la relazione con se stessi. «Prima di arrivare a questo progetto abbiamo a lungo stazionato su un lavoro molto approfondito che ha avuto a che fare con la conoscenza di sé attraverso il proprio corpo», ricorda Sandra Negri, «un corpo che, nelle persone con disabilità, è spesso un corpo da accudire dal punto di vista prevalentemente igienico e sanitario. Un corpo da pulire e non profumare, coprire con praticità e non vestire con gusto, toccare per riabilitare e non per procurare piacere. Si tratta il più delle volte di una scoperta che parte dalle parti del corpo che non vengono utilizzate a causa della disabilità o perché c’è sempre qualcuno che precede i bisogni primari. Fino ad arrivare al piacere di sentirsi e vedersi bella/o con il trucco, il capello curato, la barba ben fatta, un abito scelto e non ricevuto. Fino ad esperire il contatto fisico con un’altra persona per piacere e non per necessità. Un massaggio, una carezza, un abbraccio».
Manca quindi un’educazione alla corporeità prima che alla sessualità, donde alcune “paure” durante il laboratorio? «È subito emerso il timore di non sentire compresa la libertà con la quale potevano esprimere bisogni o fare esperienze di sentire il proprio corpo sensuale, desiderabile; e indubbiamente il timore dei giudizi delle persone a loro vicine nel quotidiano, per aver rivelato desideri fino a quel momento inespressi; tutto ciò accende sensi di colpa che vanno tenuti in considerazione», osserva Martina Palmieri.
Affettività e sessualità spesso non riconosciute, inespresse, represse o addirittura ostacolate. Al talk Racconto a più corpi si è parlato anche dell’assistente sessuale per le persone con disabilità, una figura professionale specializzata che accompagna le persone con disabilità fisico-motoria e/o psichico/cognitiva nell’esplorazione del proprio corpo e delle proprie emozioni, già presente in Germania, Belgio, Svizzera, Paesi Bassi, Danimarca e Austria.
«Era presente anche Massimiliano Ulivieri – ricorda Sandra Negri – che abbiamo invitato proprio per portare una voce altra, che facesse chiarezza su ciò che intende operare il suo Comitato Lovegiver di cui è presidente» (a questo link il video dell’incontro).
Il Comitato Lovegiver è stato la prima Associazione in Italia a supportare la legalizzazione dell’assistenza sessuale, attualmente ferma in un ristagno legislativo e materia di dibattito. Ma quali riflessioni sono emerse durante il talk? «È un discorso che parte da lontano – conclude Negri -, ma che possiamo collegare alle difficoltà di cui ho parlato nelle risposte precedenti e che le persone con disabilità incontrano nella ricerca di un rapporto con il corpo, che si tratti del proprio corpo e/o di quello di altri. Le barriere culturali si affiancano a quelle create dalla disabilità. Occorre una cultura che mostri e sottolinei il diritto all’affettività e alla sessualità di ogni persona e, soprattutto, che attivi gli strumenti necessari per rendere possibile ad ogni persona il rapporto con il proprio corpo e quello di altri e altre. Non possiamo parlare solo di contesti o ausili concreti. Spesso c’è bisogno di professionisti, che aiutino la persona con disabilità ad avvicinarsi a questa esperienza consapevolmente e in modo accessibile».
Dal canto suo, Martina Palmieri riassume l’esperienza bolognese con queste parole: «Ci siamo chiesti se e come i performer coinvolti nel laboratorio desiderano, e se desiderano anche di essere desiderati. Una domanda di partenza che evidenzia anche la vivacità e la consapevolezza con cui ogni individuo ha il diritto di comunicare i propri bisogni e che ha permesso di intrecciare un lavoro che ora si compone di proposte, alcune di queste audaci, ma anche di visioni, di soluzioni ponderate e altre non praticabili, riflessioni e rimodulazioni rispetto all’immaginabile».
Il presente contributo di riflessione è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Disabilità e sessualità, un diritto che va oltre i tabù”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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