A cavallo fra gli Anni Sessanta e Settanta, l’Italia, l’Europa e gran parte del mondo conobbero una stagione che è passata alla storia con il nome di “contestazione”, quando tutto fu messo in discussione: le leggi, le istituzioni, gli usi, i costumi; tutto fu sottoposto a critica. Nel mirino della “contestazione” finirono anche quelle metodiche in base alle quali, a fronte di alcuni problemi presentati da certe persone, si credeva che la risposta migliore fosse quella di inserirle in strutture create espressamente per loro con operatori ad essi dedicati: manicomi, scuole speciali, classi differenziali, istituti, orfanotrofi ecc. Solo dopo essere stati riabilitati, istruiti, educati, sarebbe stato possibile reinserire quegli individui nel loro tessuto sociale.
Tale approccio si fondava su un paradigma che si può sintetizzare in “riabilitare per inserire”.
Quel modello culturale negli Anni Settanta entrò in crisi e fu sostituito dal paradigma opposto: “inserire per riabilitare”.
In questo caso si partiva dall’assunto che, per i medesimi individui di cui sopra, l’inserimento negli ambienti di vita comuni (scuola, lavoro, svago ecc.), in quanto humus più ricco di stimoli e opportunità, sarebbe stato il presupposto per una più proficua riabilitazione, educazione e scolarizzazione. Di più, in alcuni casi l’inserimento di per sé sarebbe stato parte integrante del processo riabilitativo su cui si potevano innestare gli altri interventi specifici di recupero funzionale o di supporto (logopedico, fisioterapico, educativo ecc.).
In quest’ultimo paradigma era sottesa anche una seconda scommessa: la presenza delle già citate persone negli ambienti di vita comuni poteva indurre le altre a un atteggiamento di accoglienza, solidarietà e condivisione e rappresentare un’occasione per tutte di crescita sul piano civile.
A supporto di questa “svolta copernicana” ci fu un fiorire di leggi per la realizzazione di beni e servizi, a loro volta sostenute da risorse e competenze, che si configuravano come mezzi, strumenti tesi al perseguimento dello scopo da raggiungere: inserimento, integrazione, inclusione.
A tal proposito, volendo restringere il focus sulle persone con disabilità, torna utile ricordare come le Linee Guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità del 2009 definiscano cosa sia l’inclusione sostanziale e non formale: «Si è integrati/inclusi in un contesto, infatti, quando si effettuano esperienze e si attivano apprendimenti insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e strategie di lavoro e non quando si vive, si lavora, si siede gli uni accanto agli altri. E tale integrazione, nella misura in cui sia sostanziale e non formale» (Punto 1.2, La programmazione, pagina 15).
Troppe volte abbiamo visto questi mezzi eludere lo scopo per il quale erano stati concepiti. Mezzi che smarriscono i propri fini nei meandri di una quotidianità spesso stanca, che procede per inerzia, in ossequio ad un rispetto formale delle procedure (quante riunioni e quanti PEI [Piani Educativi Individualizzati, N.d.R] inutili!), finendo per raggiungere un altro scopo: la cristallizzazione delle consuetudini che, con il tempo, si autolegittimano (il tempo è come un notaio attento e paziente che suggella l’esistente e gli conferisce autorità). Si autolegittimano a tal punto che i più nemmeno avvertono la discrepanza fra come sono le cose e come dovrebbero essere.
È appena il caso di citare un esempio emblematico: fatte salve rare eccezioni, la corresponsabilità educativa in àmbito scolastico è, di fatto, una chimera… e ciò a dispetto di infinite raccomandazioni, incluse quelle contenute nelle già citate Linee Guida del 2009 (1).
Molti docenti, molti dirigenti, molti sindaci e assessori e molti genitori sono convinti che l’insegnante di un alunno/studente con disabilità sia l’insegnante di “sostegno” e, in caso di assenza imprevista di quest’ultimo, ritengono naturale chiamare il genitore, perché vada a prendere il proprio figlio per riportarlo a casa (d’altra parte se manca il “suo” insegnante!) e considerano altrettanto naturale che il genitore, trafelato, vada a riprendersi il figlio con il cappello in mano. Tutti sembrano essersi dimenticati, o non l’hanno mai saputo, che fin dalle origini l’insegnante specializzato – impropriamente chiamato “di sostegno”, come si può ben leggere anche nella Circolare Ministeriale n. 199 del 28 luglio 1979 (2) – non doveva essere l’insegnante dell’alunno/studente con disabilità, ma doveva rappresentare una delle forme di sostegno alla classe, dove l’allievo era inserito. Ma la consuetudine, ossia il delegare la docenza al solo insegnante specializzato, impropriamente chiamato di sostegno, ha preso il sopravvento e ha cristallizzato e legittimato cattive pratiche che, lungi dal favorire l’integrazione/inclusione, ne ha innescato delle altre, se non pessime, sicuramente discutibili e foriere di circoli viziosi (3), sprechi di risorse (4) e, soprattutto, elusione delle finalità inclusive (parafrasando Dario Ianes (5): «[…] la deresponsabilizzazione degli insegnanti curricolari rispetto alla questione integrazione è un fattore strutturale negativo anti-inclusione»).
Se la docenza è delegata al solo insegnante impropriamente chiamato di sostegno, le sue ore non bastano mai! Anche quando venisse assegnato il massimo di ore di insegnante, il tempo scuola sarebbe sempre superiore e così in questi casi non è insolito ridurre il tempo scuola dell’alunno/studente con disabilità facendolo entrare dopo e/o facendolo uscire prima! Può capitare anche che, se l’insegnante non è stato ancora nominato, venga “chiesto” (si fa per dire) ai genitori, che l’inizio dell’anno scolastico del loro figlio con disabilità sia posticipato (d’altra parte, se manca il “suo” insegnante!).
Considerato che la Circolare Ministeriale n. 250 del 3 settembre 1985 recita: «La responsabilità dell’integrazione dell’alunno in situazioni di handicap e dell’azione educativa svolta nei suoi confronti è, al medesimo titolo, dell’insegnante di sostegno, dell’insegnante o degli insegnanti di classe o di sezione e della comunità scolastica nel suo insieme», i genitori che ricorrono al TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) perché ritengono il proprio figlio con disabilità non adeguatamente integrato nella scuola, dovrebbero impugnare proprio la Circolare di cui sopra! Ma quando mai? Il 71% dei ricorsi al TAR, infatti (6) vengono fatti, non perché ci sia più “inclusione sostanziale e non formale, ma perché venga aumentato il numero di ore dell’insegnante di sostegno (d’altra parte se quello è il “suo” unico insegnante!).
I genitori con figli con disabilità, per avere ragguagli sull’andamento scolastico del proprio figlio, da chi vanno a colloquio? Dall’insegnante di “sostegno” (da chi altro?).
I genitori dei figli che non hanno disabilità con chi chiedono di parlare? Con gli insegnati curriculari, perché mai dovrebbero andare a parlare anche con l’insegnante impropriamente chiamato di sostegno? I loro figli non sono mica disabili! Quindi perché andarci? Eppure i genitori, a prescindere dal fatto che i loro figli siano con o senza disabilità, dovrebbero andare a colloquio con tutti i docenti della classe, considerato che tutti sono contitolari e dovrebbero partecipare a tutte le fasi di valutazione della stessa.
E ancora, spesso è l’insegnante impropriamente chiamato di sostegno a compilare il PEI in perfetta solitudine; e spesso è l’insegnante impropriamente chiamato di sostegno a confrontarsi in perfetta solitudine con gli operatori delle ASL. Tutto questo con il beneplacito di dirigenti, ispettori, sindaci, assessori… e, ahimè, spesso dei genitori, e ancor più ahimè, con l’avallo, di fatto, degli insegnanti impropriamente chiamati di sostegno, che accettano/subiscono un ruolo riduttivo e subalterno, mortificante della loro professionalità.
Tali consuetudini, dunque, si sono autolegittimate, creando un circolo vizioso che si autoalimenta e consolida la pratica della “delega”, aumentando la discrepanza fra mezzi e fini. Una discrepanza che crea un vuoto che non si colma con altre leggi: è necessario che quei “mezzi”, affinché perseguano i fini per i quali sono stati creati, tornino ad avere un’anima… ma, per questo, bisogna crederci.
Note:
(1) Linee Guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (2009), 2. La corresponsabilità educativa e formativa dei docenti, pagina 17: «È ormai convinzione consolidata che non si dà vita ad una scuola inclusiva se al suo interno non si avvera una corresponsabilità educativa diffusa e non si possiede una competenza didattica adeguata ad impostare una fruttuosa relazione educativa anche con alunni con disabilità. La progettazione degli interventi da adottare riguarda tutti gli insegnanti perché l’intera comunità scolastica è chiamata ad organizzare i curricoli in funzione dei diversi stili o delle diverse attitudini cognitive, a gestire in modo alternativo le attività d’aula, a favorire e potenziare gli apprendimenti e ad adottare i materiali e le strategie didattiche in relazione ai bisogni degli alunni. Non in altro modo sarebbe infatti possibile che gli alunni esercitino il proprio diritto allo studio inteso come successo formativo per tutti, tanto che la predisposizione di interventi didattici non differenziati evidenzia immediatamente una disparità di trattamento nel servizio di istruzione verso coloro che non sono compresi nelle prassi educative e didattiche concretamente realizzate. Conseguentemente il Collegio dei docenti potrà provvedere ad attuare tutte le azioni volte a promuovere l’inclusione scolastica e sociale degli alunni con disabilità, inserendo nel Piano dell’Offerta Formativa la scelta inclusiva dell’Istituzione scolastica e indicando le prassi didattiche che promuovono effettivamente l’inclusione (gruppi di livello eterogenei, apprendimento cooperativo, ecc.). I Consigli di classe si adopereranno pertanto al coordinamento delle attività didattiche, alla preparazione dei materiali e a quanto può consentire all’alunno con disabilità, sulla base dei suoi bisogni e delle sue necessità, la piena partecipazione allo svolgimento della vita scolastica nella sua classe. Tutto ciò implica lavorare su tre direzioni:
2.1. Il clima della classe
Gli insegnanti devono assumere comportamenti non discriminatori, essere attenti ai bisogni di ciascuno, accettare le diversità presentate dagli alunni disabili e valorizzarle come arricchimento per l’intera classe, favorire la strutturazione del senso di appartenenza, costruire relazioni socio-affettive positive […]».
(2) Circolare Ministeriale n. 199 del 28 luglio 1979: «Si noti che la legge non parla di “insegnanti di sostegno”, ma di “forme particolari di sostegno” di vario tipo e di diversa competenza. La locuzione “insegnanti di sostegno” è ormai così invalsa nell’uso comune che si può anche accettarla ufficialmente. Quello che invece bisogna evitare è che i suoi compiti siano interpretati in modo riduttivo e cioè in sottordine all’insegnante di classe, come purtroppo sta avvenendo in qualche caso. L’insegnante di sostegno deve quindi essere pienamente coinvolto nella programmazione educativa e partecipare a pari titolo all’elaborazione ed alla verifica delle attività di competenza dei consigli e dei collegi dei docenti».
(3) La concessione ridondante di ore di sostegno rafforza il rapporto di delega.
(4) La concessione ridondante di ore di sostegno fa lievitare i costi che sarebbero più contenuti se venisse applicata la Circolare Ministeriale 258/83.
(5) Dario Ianes, Prefazione a La normativa inclusiva nella “Buona scuola”, a cura di Salvatore Nocera, Nicola Tagliani e AIPD, Trento, Erickson, 2017, pagina 10.
(6) Gli alunni con disabilità nella scuola italiana. Bilancio e proposte, a cura di Associazione Treelle, Caritas Italiana e Fondazione Agnelli, Trento, Erickson, 2011.