Secondo la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, «per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
La distinzione tra “menomazione” e “disabilità” rimanda al modello sociale della disabilità, elaborato dall’UPIAS (un’organizzazione di persone con disabilità fisiche) nel 1975. Il termine menomazione denota la circostanza di avere un arto o un meccanismo del corpo-mente il cui funzionamento differisce dalla “norma”. Le menomazioni possono essere causate da una malattia cronica o da altre situazioni (1). Disabilità è lo svantaggio o la restrizione causata da un’organizzazione sociale contemporanea che tiene in conto poco o per nulla le persone con menomazioni, escludendole ingiustamente dalla partecipazione alle attività sociali.
Le “barriere” a cui fa riferimento la Convenzione rimandano ad un altro termine importante, ossia abilismo. Questa parola ha due significati: 1) Sistema di valori che considera la disabilità come una caratteristica individuale negativa da curare/eliminare e ritiene le persone senza disabilità superiori a quelle con disabilità; 2) Discriminazione nei confronti delle persone con disabilità a causa della propria disabilità (nota anche come “disablismo”) (2).
L’articolo 5 della Convenzione ONU (Uguaglianza e non discriminazione) proibisce la discriminazione sulla base della disabilità e mette in chiaro che la presenza di qualunque barriera alla piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili nella società costituisce una discriminazione.
Ma cosa comporta essere disabili nella pratica? Le persone con disabilità possono avere bisogno di assistenza e/o supervisione nelle attività della vita quotidiana (ADL) e/o nelle attività strumentali della vita quotidiana (IADL). Le ADL comprendono: igiene personale, continenza, uso dei servizi igienici, capacità di vestirsi e alimentarsi, capacità di spostarsi dal letto o da una sedia (3). Le IADL, invece, includono: usare il telefono, fare la spesa, preparare i pasti, mantenere la casa pulita, fare la lavatrice, assumere farmaci, occuparsi delle proprie finanze (4).
L’articolo 19 della Convenzione ONU (Vita indipendente ed inclusione nella società) stabilisce che l’assistenza di cui le persone con disabilità necessitano deve essere fornita in condizioni tali da rispettare sia la dignità della persona assistita, sia quella di chi la assiste. Esso definisce il concetto di Vita Indipendente come segue: «Vita Indipendente significa fornire a tutte le persone con disabilità i mezzi necessari affinché siano in grado di esercitare il diritto alla libera scelta, avere il controllo della propria vita, e prendere tutte le decisioni relative alla stessa». Questi mezzi sono innanzitutto monetari.
Il Commento Generale N. 5 (2017) alla Convenzione stessa specifica che «i finanziamenti per l’assistenza personale devono essere forniti sulla base di criteri personalizzati e tenere conto delle norme sui diritti umani relative ad un lavoro dignitoso. Il finanziamento deve essere assegnato alla persona con disabilità che lo gestisce allo scopo di pagare qualsiasi assistenza di cui necessita». In altre parole, l’assistente personale riceve una retribuzione per l’assistenza che fornisce. Quindi, quello dell’assistente personale è un lavoro di cura retribuito.
«L’assistenza personale […] è uno strumento per la vita indipendente: il servizio è controllato dalla persona con disabilità. Le persone con disabilità hanno la possibilità di personalizzare il proprio servizio o sostegno, cioè progettarlo e decidere da chi, come, quando, dove e in che modo viene effettuato». In altri termini, l’assistente personale è alle dipendenze della persona con disabilità che assiste.
Infine, «l‘assistenza personale è una relazione uno a uno». Pertanto non si può realizzare la vita indipendente in istituti e case-famiglia.
Il concetto di “indipendenza” portato avanti dalla Convenzione ONU (e dal movimento per i diritti civili delle persone con disabilità) non ha niente a che fare con l’ideale del “fare tutto in autonomia”. Le persone con disabilità, qualunque sia il tipo di disabilità, hanno diritto all’esercizio della loro autodeterminazione in qualsiasi forma e livello possibile, ossia a decidere liberamente della propria vita, che si tratti di stabilire dove e con chi vivere, o a che ora alzarsi la mattina e cosa indossare, ad esempio. Questo diritto, che la stragrande maggioranza delle persone senza disabilità può dare per scontato, non è garantito (5).
In Italia, i fondi per finanziare la vita indipendente sono allocati su base regionale, e alcune Regioni italiane non finanziano progetti di vita indipendente. Di conseguenza, sono ancora molte le persone con disabilità costrette a vivere in istituti o case-famiglia, o ad affidarsi alla buona volontà di caregiver familiari che (per definizione) svolgono lavoro di cura non retribuito. È logico pensare, quindi, che i caregiver familiari forniscano assistenza in tempi e modi determinati dalle loro attività quotidiane e, di conseguenza, a seconda del tempo disponibile. Questi tempi e modi spesso non coincidono con le necessità e i desideri delle persone con disabilità stesse.
Le donne con disabilità subiscono discriminazioni multiple: sia in quanto persone con disabilità, sia in quanto donne. Agli occhi del femminismo mainstream, esse sono concettualizzate come “soggetti passivi”, “eterne bambine”, le “vittime per antonomasia”. In breve, tutto ciò che il femminismo secondo cui «una donna può fare tutto ciò che può fare un uomo, e può farlo sui tacchi a spillo» rifugge (6).
La realtà, tuttavia, è ben diversa. Le persone con disabilità di tutti i generi non sono passive, ma il lavoro che svolgono (o sono in grado di svolgere) viene svalutato. A partire dal lavoro di produzione di beni e servizi.
Le persone con disabilità, specialmente le donne, hanno difficoltà a trovare un lavoro nel libero mercato proprio a causa della disabilità. A parità di conoscenze e competenze, si preferisce assumere individui non disabili (7), nella convinzione (contraddetta dalla letteratura scientifica) che il lavoro svolto dalle persone con disabilità valga meno di quel che costa. Per queste ragioni esistono i laboratori protetti. Le persone con disabilità che vi lavorano non sono considerate “lavoratori”, e non hanno diritto né al salario minimo (nei Paesi in cui è stato istituito), né alla rappresentanza sindacale, neanche nei casi in cui producono beni per il libero mercato (8).
Inoltre, per sopravvivere in un mondo progettato per soddisfare le esigenze della maggioranza non disabile, le persone con disabilità devono sforzarsi molto di più di quelle non disabili, tanto che si può parlare di “lavoro invisibile della disabilità”. Tale lavoro è “invisibile” in quanto le persone non disabili, non avendo la necessità di farlo, difficilmente lo notano (9). Può trattarsi di lavoro fisico, come il lavoro extra svolto dalle persone con la sindrome da fatica cronica o la fibromialgia. In questi casi specifici, è la menomazione stessa a richiedere lavoro invisibile. Diverso è il caso delle persone sorde e ipoacusiche che utilizzano apparecchi acustici o impianti cocleari, e che sono soggetti a listening fatigue (letteralmente “fatica dell’ascolto”). Quest’ultima deriva dalla convinzione abilista secondo cui la lingua parlata sarebbe intrinsecamente migliore di quella dei segni, che non viene neanche insegnata nella scuola dell’obbligo.
Il lavoro invisibile può essere anche logistico. La presenza di barriere architettoniche richiede alle persone che usano una sedia a rotelle di informarsi in anticipo sull’accessibilità dei luoghi che vogliono frequentare e degli eventuali mezzi di trasporto che desiderano prendere. Viaggiare può richiedere decine di email e telefonate, per assicurarsi una sistemazione che sia accessibile in sedia a rotelle (10).
Infine, il lavoro invisibile può essere emotivo. Operare in un mondo progettato per soddisfare le esigenze delle persone non disabili obbliga a chiedere “per favore” di poter usare l’entrata accessibile di un negozio, che (quando c’è), spesso si trova sul retro, nelle vicinanze dei bidoni della spazzatura. Costringe le persone con disabilità ad esprimere gratitudine nei confronti delle persone non disabili che si degnano di rispettare i loro diritti fondamentali, evitando di discriminarle (11).
Le persone neurodivergenti spesso ricorrono al masking (12), sopprimendo la loro reale personalità per sembrare “normali” ed evitare di essere stigmatizzate.
In conclusione, il lavoro emotivo sproporzionato a cui sono costrette le persone ha ripercussioni negative dal punto di vista psicologico.
Le persone con disabilità, quindi, sono tutt’altro che passive. Tuttavia, hanno in comune con le donne il fatto che i loro sforzi vengono resi invisibili all’interno della società. La letteratura femminista insegna che anche il lavoro riproduttivo, svolto in prevalenza dalle donne, viene reso invisibile (13). Questo lavoro comprende tutti i compiti necessari alla riproduzione della forza lavoro: pulizie, cucina, e accudimento della prole. Quest’ultimo costituisce lavoro di cura non retribuito.
Quando è svolto da donne non disabili, il lavoro di cura non retribuito viene reso invisibile sia relegandolo allo spazio domestico (nettamente separato da quello produttivo), sia facendolo passare per “naturale” (14).
Il lavoro di cura non retribuito delle donne con disabilità, pur svolgendosi nell’ambiente domestico, riceve un trattamento ben diverso. Secondo l’ideologia abilista, la disabilità è “patologica” e “innaturale” (15). Non c’è, quindi, niente di “naturale” nell’essere una madre con disabilità. Al contrario, il paradigma abilista postula che le persone con disabilità non siano in grado di riprodursi o che, comunque, farebbero meglio a non farlo. Secondo questo paradigma, sarebbe la disabilità stessa a rendere “cattive madri”, nell’accezione più ampia possibile (16). Non è un caso che la letteratura mainstream sul lavoro di cura non retribuito metta le persone con disabilità e quelle anziane nella stessa categoria delle persone minori: quella dei soggetti bisognosi di cura, che si dà per scontato siano inadatti a svolgere il ruolo di caregiver (17). Eppure, gli studi sull’uso del tempo dimostrano chiaramente che le donne con disabilità dedicano lo stesso tempo al lavoro di cura non pagato che vi riservano quelle non disabili (18).
Rendere invisibile il lavoro svolto dalle donne con disabilità, purtroppo, è solo la punta dell’iceberg. L’abilismo ha conseguenze molto concrete, tra cui la sterilizzazione forzata delle persone con disabilità e il maggior rischio di perdere la custodia della prole a cui sono esposte le madri con disabilità.
Il fatto che le donne con disabilità subiscano discriminazioni multiple, tuttavia, non costituisce un motivo legittimo per relegarle al ruolo di vittime passive. Dalla loro posizione al margine, esse possono (come hanno già fatto e continuano a fare) offrire contributi importanti sia al movimento per i diritti delle persone con disabilità, sia al movimento femminista. Basta ascoltarle.
Note:
(1) Sophie Mitra, Disability, Health and Human Development, Springer Nature, 2017.
(2) Fiona Kumari Campbell, Contours of Ableism: The Production of Disability and Abledness. Springer, 2009.
(3) Meredith Wallace e Mary Shelkey, Katz Index of Independence in Activities of Daily Living (ADL), Urol Nurs, 27(1), 2007, pp. 93-94.
(4) Carla Graf, The Lawton Instrumental Activities of Daily Living Scale, AJN (The American Journal of Nursing), 108(4), 2008, pp. 52-62.
(5) Giampiero Griffo e Ciro Tarantino, Living Independently and Being Included in the Community, ANED Report Italy, 2019 (ultimo accesso 2 gennaio 2024).
(6) Ana Bê, Feminism and Disability. A Cartography of Multiplicity, Routledge Handbook of Disability Studies, 2019, pp. 421-435.
(7) Mason Ameri, Lisa Schur, Meera Adya, F. Scott Bentley, Patrick McKay e Douglas Kruse, The Disability Employment Puzzle: A Field Experiment on Employer Hiring Behavior, ILR Review, 71(2), 2018, pp. 329-364.
(8) Laurent Visier, Sheltered Employment for Persons with Disabilities, Int’l Lab. Rev., 137, 1998, p. 347.
(9) Jan Grue, The CRPD and the Economic Model of Disability: Undue Burdens and Invisible Work, Disability & Society, 2023, pp. 1-17.
(10) Elena Paolini e Maria Chiara Paolini, Mezze Persone. Riconoscere e comprendere l’abilismo, Palermo, Aut Aut Edizioni, 2022 (collana “Le colline a Sud di Hebron”, n. 8).
(11) Jackie Leach Scully, Hidden Labor: Disabled/Nondisabled Encounters, Agency, and Autonomy, IJFAB (International Journal of Feminist Approaches to Bioethics), 3(2), 2010, pp. 25-42.
(12) Danielle Miller, Jon Rees e Amy Pearson, “Masking Is Life”: Experiences of Masking in Autistic and Nonautistic Adults, Autism in Adulthood, 3(4), 2021, pp. 330-338.
(13) Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Sesto San Giovanni (Milano), Mimesis Edizioni, 2020.
(14) Erin Hatton, Mechanisms of Invisibility: Rethinking the Concept of Invisible Work, Work, Employment and Society, 31(2), 2017, pp. 336-351.
(15) Robert McRuer, Teoria Crip. Segni culturali di queerness e disabilità (traduttori Vale Baldioli, Beatrice Gusmano e Matu D’Epifanio), Bologna, Odoya, 2023 (opera originale pubblicata nel 2006).
(16) Rebekah Taussig, Felicemente seduta. Il punto di vista di un corpo disabile e resiliente, prefazione di Marina Cuollo, traduzione di Beatrice Gnassi (collana “Le sagge”, 2), Morlupo (Roma), Le Plurali Editrice, 2022, 270 pagine.
(17) Carrie L. Shandra e Anna Penner, Benefactors and Beneficiaries? Disability and Care to Others, Journal of Marriage and Family, 79(4), 2017, pp. 1160-1185.
(18) Ricardo Pagán, Time Allocation of Disabled Individuals, Social Science & Medicine, 84, 2013, pp. 80-93.