Pareti ingiallite dal tempo e dall’incuria. Bagni fuori uso perché intasati. Atmosfera cupa e desolante. Un inappuntabile dirigente scolastico prende carta e penna e comincia a scrivere a chi di competenza affinché nella sua scuola sia fatto un intervento di manutenzione straordinaria.
Passa il tempo e i muri rimangono ingialliti e i bagni fuori uso. L’inappuntabile dirigente scolastico riprende carta e penna e sollecita chi di competenza. Dopo qualche anno trascorso a sollecitare il destinatario in indirizzo, salendo sempre di un grado gerarchico, l’inappuntabile dirigente, stanco e deluso, chiede e ottiene il trasferimento in altra sede, dove le cose funzionano talmente bene che procedono per inerzia. Nel frattempo i muri dell’altra scuola hanno virato dal giallo sporco ad un marrone chiaro, con tracce di muffa dove anche i graffiti si leggono a malapena e che, comunque, leggerebbero ben pochi, dato l’alto grado di dispersione scolastica…
Si può accusare quel dirigente di negligenza? No. Quel dirigente è stato irreprensibile e ha fatto tutto quello che doveva… ma non tutto quello che poteva. Per fare tutto quello che poteva, sarebbero occorse qualità umane che non figurano tra i requisiti richiesti per accedere al posto di dirigente scolastico: convinzione e tensione etica, di cui invece sicuramente è dotata la professoressa Eugenia Canfora che dirige l’Istituto Morano di Caivano, situato in un quartiere alla periferia di Napoli, ritenuto fra i più degradati d’Italia.
Avrà anche lei scritto qualche lettera, ma poi non si è fermata a quello che doveva fare. Raschiando il fondo del barile di qualche esangue capitolo di spesa (e non mi stupirei se si fosse anche frugata in tasca!), ha comprato tinta e pennelli e, coinvolgendo studenti e genitori, ha riverniciato l’intera scuola dentro e fuori. Ciò facendo ha ottenuto tre risultati: il primo è talmente banale da risultare quasi insignificante rispetto agli altri due; ora, cioè, le pareti sono tinteggiate e decorose, ma, sebbene tutto sia iniziato da lì, è ben poca cosa a confronto con il secondo e il terzo risultato. Nessuno studente, infatti, oserà imbrattare con qualche graffito quelle pareti perché ora sono diventate “le loro pareti”.
Il terzo risultato, forse, è il più importante di tutti: coinvolgendo i genitori, la dirigente ha ristabilito un patto educativo venuto meno negli ultimi anni. Quel patto non ha bisogno di essere sancito da un protocollo o da un accordo di programma scritto. Quel patto si basa e si alimenta di un rapporto di reciproca stima e fiducia sul quale è possibile costruire la condivisione sul da farsi.
La smania della concretezza (che pure è importante) ci fa perdere di vista che le cose fondamentali sono astratte, impalpabili e invisibili agli occhi… È con il convincimento e la tensione etica che lo sostiene che si possono muovere le montagne. Quando entrambe vengono meno, non solo è inutile agire sul versante normativo, economico e formativo, ma ogni legge in più, non strettamente necessaria, aumenta la burocrazia; ogni euro in più, non strettamente necessario, aumenta gli sprechi; ogni percorso formativo in più, non strettamente necessario, aumenta la parcellizzazione degli interventi che finiscono per frammentare l’identità delle persone reificandole (studente, paziente, cittadino…).
Lo ha capito bene quella dirigente scolastica che opera in uno dei molti “Bronx” delle nostre periferie (dove “Cristo sembra essersi fermato”), quando afferma: «Per cambiare cultura e modo di fare ci vorrà un po’ di tempo. Non sono i soldi o i progetti che cambieranno Caivano, ma la voglia di essere protagonisti di un nuovo bene».
Grazie Eugenia!
Considerazione a margine. Anni fa organizzammo una festa nel nostro giardino dove invitammo il gruppo scout frequentato da mio figlio. A un certo punto uno degli invitati mi chiese dov’era il bagno. Io glielo indicai… e mi accorsi che non era per lui: era un altro ragazzo scout con sindrome di Down ad averne bisogno. Il primo ragazzo con assoluta disinvoltura si avvicinò al secondo e lo accompagnò al bagno! Sì, avete capito bene, lo accompagnò al bagno. Vi assicuro che non si trattava di un marziano, era un giovane e imberbe ragazzo fra i 15 e i 16 anni, che trovava naturale aiutare un coetaneo che ne aveva bisogno.
Ho cosciuto un ragazzo che frequentava le scuole secondarie superiori e che aveva due insegnanti di sostegno i quali si spartivano una manciata di ore di docenza, la cui distribuzione nell’arco della settimana rispondeva più alle esigenze di quelle stesse insegnanti che a quelle del ragazzo con disabilità. In alcuni giorni erano presenti entrambe, in altri giorni nemmeno una delle due. Ad esse si aggiungevano due OSA (Operatori Socio Assistenziali), che provvedevano alla sua igiene personale. Gli OSA si distinguono dagli OSS (Operatori Socio Sanitari) i quali, oltre ad espletare le mansioni degli OSA, possono somministrare alcuni semplici farmaci sotto il controllo di infermieri. Ci sono poi gli OSSS (Operatori Socio Sanitari Specializzati), i quali possono somministrare in autonomia alcuni tipi di farmaci, ma non possono dare una pacca sulla spalla alla persona assistita; per quello è allo studio un’ulteriore qualifica professionale… e magari quando l’avranno trovata aggiungeranno un’altra “S” o una “X” o magari una “Y” all’acronimo.
La coordinatrice di quell’istituto, per il medesimo ragazzo, fece anche richiesta di un infermiere e di un facilitatore della comunicazione (sic!). Entrambe le richieste si arenarono (per fortuna) in qualche cassetto.
Dimenticavo: quel ragazzo con disabilità aveva anche un obiettore di coscienza il cui compito era quello di andargli incontro tutte le mattine all’ingresso della scuola sulla cui soglia veniva lasciato dai volontari della pubblica assistenza che provvedevano al trasporto scolastico. Lo stesso obiettore accompagnava il ragazzo con disabilità nella stanza delle due OSA di cui sopra, dove quest’ultimo permaneva la maggior parte della mattinata, fatte salve le ore nelle quali entravano in servizio le insegnanti di sostegno (e la chiamavano inclusione!).
Mi piace pensare ad un altro scenario, dove a turno i compagni di classe di quel ragazzo con disabilità andassero ad accoglierlo all’ingresso della scuola, lo accompagnassero in classe (non nella stanza delle OSA), lo aiutassero a togliersi il giacchetto; qualcuno di loro, magari a turno, ma sempre spontaneamente, si sedesse al suo fianco e lo aiutasse a partecipare all’appello, in modo che imparasse i nomi dei compagni, gli accendesse il computer, all’ora della ricreazione gli prendesse la colazione nel suo zaino e lo aiutasse a mangiare e… chissà, magari il pomeriggio, andasse a trovarlo a casa o gli telefonasse per sentire come stava… Ma ha ragione la professoressa Eugenia Canfora: per questo ci vuole tempo, molto tempo, anche se il solo trascorrere del tempo non basta, perché esso potrebbe passare invano. È per questo che il tempo va aiutato con testimonianze di vita come quella di Eugenia.
Ancora grazie Eugenia! «Non saranno i soldi o i progetti che cambieranno quell’istituto di scuola secondaria superiore, ma la voglia di essere protagonisti di un nuovo bene».