Il sogno di Gabriella Bertini, simbolo di vita indipendente in anni già lontani

«Colei che travasava i sogni nella realtà», un vero «simbolo di vita indipendente» in anni già lontani: così abbiamo definito di volta in volta Gabriella Bertini, che fu la prima donna con paraplegia del nostro Paese a guidare un’autovettura nel 1965 e che al momento della sua scomparsa, nel 2015, aveva nel cassetto il progetto di Casa Gabriella, struttura dedicata alle persone con paraplegia e tetraplegia. Di questo e altro anche Stefania Delendati ha ampiamente scritto qualche anno fa sulle nostre pagine e torna a farlo oggi, parlando anche con chi fu più vicino a Gabriella

Il nostro giornale ha avuto il piacere in diverse occasioni di occuparsi di Gabriella Bertini (si vedano qui a fianco gli Articoli correlati), donna toscana che di volta in volta abbiamo definito come colei «che travasava i sogni nella realtà», vero «simbolo di vita indipendente» in anni già ormai lontani. Quel che è certo è che Gabriella fu senza ombra di dubbio la prima donna con paraplegia del nostro Paese a guidare un’autovettura nel 1965 e che al momento della sua scomparsa, nel 2015, aveva un progetto nel cassetto, ossia Casa Gabriella, una struttura adiacente al CTO di Firenze che completasse il percorso terapeutico delle persone con paraplegia e tetraplegia.
Di questo e altro anche Stefania Delendati ha ampiamente scritto qualche anno fa sulle nostre pagine e torna a farlo oggi, parlando anche con chi fu più vicino a Gabriella.

Gabriella Bertini a una manifestazione negli Anni Settanta

Gabriella Bertini a Firenze negli Anni Settanta, durante una manifestazione per i diritti delle persone con disabilità. Al suo fianco la scritta “Our bodies belong to us” (“I nostri corpi ci appartengono”)

Questo racconto ha un indirizzo ben preciso: Via Incontri, 2, zona Careggi, Firenze. È qui, sopra una collina, che si trova un casolare ristrutturato che ha fatto la storia della rivendicazione dei diritti delle persone con disabilità in Italia. Questa era la casa di Gabriella Bertini, la prima donna in sedia a rotelle del nostro Paese a guidare un’automobile con comandi al volante.

Attivista sensibile a tutte le ingiustizie sociali, Gabriella, venuta a mancare nel 2015, aveva un sogno: fare di quel casolare un punto di appoggio per persone con paraplegia e tetraplegia seguite dalla vicina Unità Spinale del CTO, reparto nato in seguito alla sua esperienza nel Centro di Riabilitazione inglese di Stoke Mandeville, ma anche una residenza per chi, disabile e anziano, rimane senza il supporto della famiglia.
Casa Gabriella è il nome del progetto che i suoi amici portano avanti, una storia iniziata negli anni ruggenti della contestazione giovanile che ascoltiamo dalle parole di chi l’ha vissuta in prima linea, il compagno di Gabriella, Beppe Banchi, e l’amica Mariangela Sirca.

Chi era Gabriella e come l’avete conosciuta? «Di persona l’ho conosciuta, anzi l’avevo voluta conoscere, quando faceva lo sciopero della fame per la realizzazione dell’Unita Spinale a Careggi. Era un periodo di fermento e molto fervore, con tante persone coinvolte e la vita di Gabriella era davvero frenetica. Aveva un’energia e resistenza incredibili», ricorda Mariangela.
In quegli anni nessuno era a conoscenza della condizione delle persone con miolesione, in Italia non esisteva assistenza, nessuna cura se non il ricovero in strutture protette come gli ospizi, così era per chiunque avesse una disabilità. Le barriere erano molteplici, da quelle architettoniche più evidenti a quelle culturali che percepivano la disabilità come una condizione “anormale”, da nascondere.
Lo sapeva bene Gabriella, rimasta paralizzata alle gambe improvvisamente a soli 13 anni, vissuta fino ai 18 in una camera al secondo piano senza ascensore, sola tutto il giorno perché, orfana di padre, la mamma e il fratello dovevano lavorare. Una stanza chiusa, i padroni di casa non volevano che la sua porta rimanesse aperta.
In quella stanza da cui usciva soltanto una volta all’anno maturò la certezza che era necessario passare dalle situazioni di bisogno individuale alla rivendicazione collettiva dei diritti. Un impegno che anni dopo vedrà accanto a lei Beppe, il compagno di vita: «La incontrai nel 1967, avevo partecipato, insieme ad altri giovani volontari, ad una riunione di tutte le persone con spasticità adulte della città che aveva convocato presso il Centro di Riabilitazione Motoria dell’AIAS. Rimasi molto colpito da lei e dai gravi problemi sociali che, con grande determinazione, poneva davanti ai diretti interessati ed a noi, “altra società”. Nell’intervallo della riunione venne a salutare gli altri volontari ed a parlare con me perché era la prima volta».

Vivevano nel casolare che avevano occupato quando era un rudere, a loro spese l’avevano trasformato in un’abitazione confortevole senza barriere architettoniche, con un montascale per il piano superiore: a questo link vi è il documentario in due parti In via Incontri, realizzato da Enrico Lirdi, che ci fa tornare a quei giorni anche attraverso la viva voce delle persone con disabilità che raccontano la loro quotidianità e le speranze per un futuro migliore.
La loro casa era una comunità aperta a chiunque, è l’atmosfera che traspare dai ricordi di Mariangela: «Ho frequentato assiduamente la casa di Via Incontri da molto presto, era la casa di chi doveva o voleva trovare uno spazio per parlare, discutere dei problemi (non solo quelli delle persone con disabilità), organizzare lotte o incontrare persone che solo in Via Incontri potevi trovare senza formalità. Era la casa aperta a tutti anche per appoggiare il capo e riposare/dormire per chi non aveva dove sbattere la testa, senza chiedere carte di identità. Ci si trovava a mettere a tavola tantissime persone che lasciavano segni di frate/sorellanza, oppure risolto il loro problema sparivano. Restava che quella casa recuperata dalle macerie di decenni era un porto sicuro».
Si parlava anche di disabilità? «Mi sembra che nei momenti in cui c’ero io non se ne parlasse poi tanto – dice Mariangela – certo, qualche volta Gabriella aveva lasciato trasparire il rimpianto di quando si poteva muovere, prima della malattia, ma lei partiva dalla sua situazione di “comunione con la carrozzina” (definizione mia che le era piaciuta, salvo correggermi che senza Beppe, carrozzina o non carrozzina, sarebbe stata dura), e aveva davvero il chiodo fisso di voler adeguare il mondo a chi ha queste difficoltà poco o per niente considerate».

Gabriella Bertini

L’immagine divenuta una sorta di icona di Gabriella Bertini, che negli Anni Sessanta – come reca la stessa dicitura sotto la foto – fu la prima donna italiana in carrozzina a guidare l’automobile

La casa diventò sede delle prime organizzazioni di persone con disabilità, Medicina Democratica, Associazione Toscana Paraplegici, Associazione su Autismo e Psicosi, che potevano riunirsi in un luogo accessibile. C’era anche un sacerdote, don Bruno Borghi, che molto negli anni si sarebbe speso per sostenere le battaglie per l’inclusione e la dignità di vivere.
Gabriella era stata segretaria del professor Adriano Milani Comparetti, direttore del centro di riabilitazione per bambini con spasticità della Croce Rossa Italiana del capoluogo toscano, fratello di don Lorenzo Milani, che nella scuola di Barbiana sperimentava un modo nuovo di insegnare, accogliendo anche i ragazzi che per motivi diversi si trovavano svantaggiati nella società. Insieme avevano organizzato le prime sedute di fisioterapia per persone con miolesione, vera fantascienza in un’epoca in cui si poteva morire per piaghe da decubito trascurate. Pochi lo sanno, ma al capezzale di don Lorenzo gli ultimi giorni c’era Gabriella a tenergli la mano, suggello di un rapporto che in entrambi aveva consolidato la consapevolezza che l’inclusione era fatta anche di scuola, lavoro, sport, tempo libero.

La lunga occupazione di Piazza della Signoria a Firenze nel 1971 portò all’assunzione di trecento persone con disabilità, in ottemperanza della Legge 482/68 sul collocamento obbligatorio. Cresceva la voglia di vivere in modo autonomo e alla fine degli Anni Settanta fu Gabriella per la prima volta a parlare di sessualità, grazie alle testimonianze di donne e uomini con paraplegia.
Lei e Beppe erano genitori adottivi di un bambino: «Adi arrivò alla nostra casa dalla Polonia nel mese di luglio del 1992. Gabriella ed io avevamo saputo da una suora polacca di questo bambino che poteva lasciare l’Istituto per i due mesi di vacanza scolastica. Fu una grande, nuova emozione per noi e ci fu subito un grande attaccamento reciproco. Quando sapemmo che il ragazzo era adottabile, si iniziarono subito le pratiche che si conclusero a febbraio». Pioniera anche in questo, la prima mamma adottiva con disabilità. Anche Casa Gabriella era una sua creatura, purtroppo il destino non le ha dato la possibilità di vederla compiuta.
Casa Gabriella sarebbe la prima struttura pubblica in Italia in grado di fornire continuità alle terapie erogate da un’Unità Spinale, come avviene nei più moderni ospedali all’estero. Il progetto prevede una parte dedicata ad aspetti riabilitativi, sociali, sportivi e di aggregazione, e una serie di “casine”, come le ha sempre chiamate Gabriella, dei piccoli appartamenti strutturati in modo diversificato a seconda delle esigenze, dove le persone con disabilità potrebbero imparare una nuova autonomia, ricevere assistenza da personale qualificato e avere accanto i propri familiari.
Nel 2017 il progetto è stato unanimemente approvato dal Consiglio Regionale della Toscana, attraverso una mozione, ma poi si è arenato in un pantano burocratico che ha visto anche lo sfratto di Beppe che risiedeva in Via Incontri. Mariangela, da amica, non nasconde l’amarezza: «Personalmente sono rimasta “orfana” due volte, di Gabriella e della casa. Il progetto di Casa Gabriella, che è stato percepito come riguardante la parte finale della vita, mentre tratta molto invece dell’indipendenza assistita e sicura a prescindere dalla età, è “lì”», conclude, con l’auspicio che le Istituzioni coinvolte (INAIL proprietaria dell’immobile, Regione Toscana, Comune di Firenze e Azienda Sanitaria) riprendano le trattative insieme a Medicina Democratica e all’Associazione Toscana Paraplegici per la concreta realizzazione del sogno di Gabriella. Il progetto è ancora vivo perché i bisogni a cui assolverà non sono né spariti né risolti, continua ad esserci con tenacia e convinzione, come la Fiat 500 di Gabriella Bertini, l’unica auto al mondo rimasta degli Anni Sessanta adattata per la guida di una persona con disabilità. L’acquistò nel 1965, contro il parere della famiglia, per raggiungere il posto di lavoro senza aspettare il pulmino. Oggi, riverniciata di un rosso fiammante e donata a un ragazzo con disabilità di Livorno, è ancora in strada, come gli ideali della donna che la guidò per la prima volta.

Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Gabriella Bertini, la pioniera dei diritti e il sogno di una casa che porta il suo nome”). Viene qui ripreso, con un’introduzione e minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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