Un doppio debito con i genitori che lo sono stati prima di noi

«La generazione dei genitori di figli con disabilità, alla quale appartengo – scrive Orlando Quaglierini -, ha un doppio debito da saldare nei confronti di quella che l’ha preceduta. Il primo è ascrivibile al fatto che la stragrande maggioranza dei beni e dei servizi di cui oggi beneficiano le persone con disabilità la si deve a quei genitori. Il secondo attiene alla generosità con la quale gli stessi hanno perseguito quegli obiettivi: di una parte di quelle conquiste, loro non hanno fatto in tempo a godere»

Genitori insieme a figlio con disabilità in carrozzina

Due genitori insieme al figlio con disabilità

La generazione dei genitori di figli con disabilità, alla quale appartengo, ha un doppio debito da saldare nei confronti di quella che l’ha preceduta. Il primo è ascrivibile al fatto che la stragrande maggioranza dei beni e dei servizi di cui oggi beneficiano le persone con disabilità la si deve a quei genitori. Il secondo attiene alla generosità con la quale gli stessi hanno perseguito quegli obiettivi: di una parte di quelle conquiste, loro non hanno fatto in tempo a godere.
Un esempio fra tutti riguarda l’inserimento delle persone con disabilità nelle classi comuni. Quando finalmente l’obiettivo venne raggiunto, i loro figli avevano chi venti, chi trenta, chi quarant’anni e ormai l’iter scolastico era alle loro spalle; ma proprio in questo consiste la generosità di quei genitori: loro sapevano che i propri figli e figlie non avrebbero fatto in tempo a beneficiare di quel risultato e, nonostante ciò, si sono spesi affinché quell’obiettivo fosse raggiunto.
A loro va tutta la nostra gratitudine, e il miglior modo per saldare questo debito di riconoscenza, per un’Associazione come la nostra [In Viaggio con Noi, N.d.R.], è quello di afferrare saldamente il testimone e fare un altro pezzo di strada che ci vede impegnati su due versanti: il primo è quello della difesa di quel prezioso patrimonio che ci è stato lasciato in eredità, perché la storia ci insegna che le conquiste si possono perdere. Il secondo versante ci impegna a fare un altro tratto di strada in avanti, ponendoci obiettivi di natura diversa.

Tutti i beni e i servizi ricevuti “in eredità” (istruzione, cura, riabilitazione, assistenza protesica, previdenze economiche, lavoro, assistenza domiciliare, agevolazioni fiscali ecc.) hanno due caratteristiche in comune: sono concreti, tangibili e, a suo tempo, è stato possibile sancirli per legge; una volta sanciti, sono diventati diritti esigibili, ovvero possono essere pretesi, come fecero quei due genitori negli Anni Settanta che si videro respingere la domanda di iscrizione della loro figlia con disabilità alle medie superiori. Fecero ricorso e lo vinsero: fu la Sentenza n. 215 del 1987 della Corte Costituzionale.
La seconda caratteristica è che quei diritti sono strumentali ovvero attengono a mezzi per conseguire delle finalità, alcune delle quali (forse le più importanti) non possono essere garantite dalle leggi perché sono relative agli atteggiamenti che riflettono il nostro modo di essere e rapportarsi con gli altri.
Un giorno mi capitò di parlare con un genitore molto anziano che aveva uno di quegli sguardi capaci, di per sé, di “raccontare” una vita. Ni disse che sua figlia, ormai una donna di 40 anni, aveva l’abitudine di svegliarsi e alzarsi da letto in piena notte e girovagare per la casa. Lui e sua moglie, alternandosi fra loro, si alzavano, non solo per impedire che la figlia potesse compiere qualche imprudenza, ma perché volevano condividere con lei anche quel momento. Ciò detto, aggiunse: «Quando non ci saremo più, ci sarà qualcuno disposto a fare altrettanto, o quel qualcuno, non dico alla prima e forse nemmeno alla seconda, ma dalla terza notte in poi le darà qualche farmaco per farla dormire e magari la mattina dopo sarà più intontita e meno presente a se stessa e agli altri?».
Ogni risposta da parte mia, in quel momento, mi sembrò disonesta. Non potevo cavarmela con una risposta vagamente consolatoria, non a lui, né a nessun altro beninteso, meno che mai ad un uomo come lui, che aveva alle spalle anni di dure lotte sindacali e nel partito, non a lui che da quando era nata sua figlia aveva cominciato, con lo stesso piglio e la stessa determinazione visionaria, un confronto serrato con le Istituzioni, perché anche sua figlia potesse avere una vita dignitosa. Mi limitai ad ascoltarlo in silenzio, ma dentro di me pensavo: la questione non è se quel “qualcuno” darà o meno quelle pasticche a sua figlia… Il punto è se quelle pasticche verranno date per risolvere il problema di chi le somministra o di chi le assume, perché in questo sta la differenza che corre fra occuparsi di qualcuno o prendersene cura.

Ecco il punto: ognuno di noi può esigere che le Istituzioni (scuole, ospedali, Enti Locali) si occupino di noi e delle persone a noi care, ma niente e nessuno può garantire che si prendano cura di noi e dei nostri cari: si può desiderarlo, auspicarlo, ma non esigerlo… ma, forse, si può fare qualcosa di più che sperare.
Pier Paolo Pasolini, in una delle sue tante riflessioni che ci ha lasciato, distingueva e definiva il concetto di sviluppo e quello di progresso, laddove, diceva, lo sviluppo è un fatto meramente economico, il progresso, invece, attiene agli ideali e alla politica. Concludeva affermando amaramente che il nostro Paese stava conoscendo (riferendosi a quell’epoca) un periodo di intenso sviluppo economico a scapito del progresso ideale e politico. In buona sostanza, stavamo diventando esseri umani peggiori.
Anche se è maledettamente difficile (accidenti se lo è!), forse è necessario provare a ristabilire il primato della politica sull’economia, ecco che lo sviluppo, se pur necessario, non sarebbe più fine a se stesso: la crescita per la crescita, il Prodotto Interno Lordo (PIL) per il Prodotto Interno Lordo, ma sarebbe finalizzato a raggiungere ideali politici. Potrebbe, ad esempio, servire a dare corpo e spessore al concetto di salute coniato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità fin dagli Anni Quaranta, la cui onda lunga la ritroviamo nell’ICF del 2001 (modello biopsicosociale: Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute).
Se la politica perseguisse quel modello di salute (stato di benessere fisico, psichico e sociale), la salute non sarebbe più solo una questione medica, ma permeerebbe tutti gli aspetti della società.
Anche gli assetti urbani (la loro architettura, i loro ritmi di vita, i sevizi di cui sono dotati) dovrebbero concorrere al raggiungimento di quelle finalità, così come il mondo del lavoro dovrebbe essere concepito non come mero strumento per procacciarsi del denaro per campare, ma anche e soprattutto come luogo e momento di realizzazione delle personalità degli individui, dove la soddisfazione e il premio deriverebbero non da un incentivo esterno, ma dalla motivazione intrinseca di chi trova, in quel che fa, motivo di sprone e soddisfazione.

Il primato della politica potrebbe riesumare l’obiettivo della formazione permanente. Paolo Grassi organizzava pullman, con tanto di mangiare al sacco, per gli operai che uscivano dalle fabbriche affinché potessero anche loro fruire degli spettacoli rappresentati al Piccolo Teatro di Milano. Adriano Olivetti chiamava nelle sue fabbriche poeti, scrittori, storici affinché tenessero, in orario di lavoro retribuito, lezioni ai suoi operai, perché, diceva lui, potessero crescere spiritualmente e diventare cittadini migliori. I sindacati organizzavano le 150 ore retribuite e in orario di lavoro, per quei lavoratori che desideravano avvicinarsi a percorsi culturali e formativi. I partiti politici erano luogo di formazione e non comitati elettorali… e a votare andava fino al 93% degli aventi diritto!
Se il luogo di lavoro fosse fonte di soddisfazione individuale, anche se non è scontato ed automatico, aumenterebbe la probabilità che gli addetti ai lavori, a prescindere, non si occuperebbero solo delle loro mansioni, ma avrebbero a cuore e si prenderebbero cura delle persone a cui sono dirette.
Il fulcro su cui far leva sono tutte le persone che già oggi, nonostante tutto, sono mosse da ideali politici e operano, nel loro lavoro quotidiano, in base a una motivazione intrinseca che trae origine dalle loro risorse interiori, dalla loro ricchezza morale e dalle loro storie di vita, non certo dal loro contesto lavorativo. Ormai tutti gli ambienti di lavoro pubblici e privati (basta leggere i contratti della scuola, della sanità, delle poste ecc.) puntano sul “condizionamento operante”, ovvero: un incentivo quasi sempre economico, né più né meno come se fossimo piccioni da ammaestrare ai quali far compiere numeri da circo (…se fai questo, ottieni un premio, se fai anche questo aggiungo quest’altro premio… che tristezza! Come abbiamo fatto a ridurci così?).

Ecco: una delle funzioni della nostra Associazione è quella di fungere da promemoria, ricordare a noi stessi, prima ancora che agli altri, che le questioni umane sono tutte collegate direttamente o indirettamente e si influenzano reciprocamente, a volte in tempi rapidi, a volte in tempi così dilatati da non farci più accorgere del legame che le unisce. Ecco perché abbiamo fatto nostro il motto dei Verdi degli Anni Settanta: «Agire nel particolare pensando al generale».

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