Com’è ormai ben noto a Lettori e Lettrici di «Superando.it» [si vedano a fianco i nostri contributi, tra gli “Articoli correlati”, N.d.R.], nelle scorse settimane, su un noto quotidiano nazionale, è stato pubblicato un attacco all’inclusione scolastica da parte di Ernesto Galli della Loggia che ha fatto un uso pretestuoso e strumentale della recensione di un testo (limitata ad una decina di pagine dello stesso), per avvalorare un proprio punto di vista: «La scuola italiana è il regno della menzogna e finché resterà tale non potrà che peggiorare. […] A cominciare ad esempio da quella che si cela dietro il mito dell’inclusione. In ossequio al quale nelle aule italiane convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazzi disabili anche gravi […] poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali) […] e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo».
Le tante e autorevoli critiche suscitate dalle sue parole – una breve summa di pensiero discriminatorio, fatta di pregiudizi, luoghi comuni e inesattezze – hanno poi spinto l’intellettuale a scrivere una sorta di “chiarimento giustificazionista” che nella sostanza non ha fatto altro che confermare e, per certi aspetti, radicalizzare la sua precedente uscita: «È proprio sicuro che ad esempio, perlomeno nei casi gravi di disabilità intellettiva, di disabilità motoria, piuttosto che essere immersi in un ambiente totalmente altro assistiti da un incompetente non gioverebbe di più l’inserimento in un’istituzione capace di prendersi cura di simili casi in modo più appropriato e scientificamente orientato?».
Negli interventi di Galli della Loggia si possono ritrovare gli stessi concetti di Björn Höcke, ciò di cui ho avuto modo di scrivere a suo tempo su queste stesse pagine, ossia del leader del partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) in Turingia, che nell’estate dello scorso anno ha attaccato l’inclusione scolastica, definita non come “mito dannoso”, ma similmente come «un progetto ideologico […] che non aiuta i nostri studenti». Come soluzione entrambi propongono l’isolamento scolastico e/o l’istituzionalizzazione degli alunni con disabilità, visti come un «fattore di stress» e di ostacolo per gli altri studenti oltre che per la scuola e, quindi, per la società.
Se è inevitabile riscontrare una certa affinità di pensiero sul tema dell’inclusione scolastica tra il leader politico dell’AfD e Galli della Loggia, bisogna rilevare un ulteriore preoccupante aspetto nelle parole di quest’ultimo.
Nella sua cosiddetta “replica”, infatti, l’intellettuale utilizza strumentalmente (forse animato da un certo risentimento per le critiche ricevute) una frase tratta dal testo Lettera a una professoressa di don Milani (per lui espressione di quel “donmilanismo inclusivo” considerato una delle cause della decadenza della scuola italiana), e riferendosi agli alunni con disabilità, nel sostenere la prospettiva della loro esclusione dalla scuola e il loro inserimento in istituti, afferma: «Un tempo non era forse considerata un’ipocrisia, una finta giustizia, trattare in modo eguale ciò che è diseguale?».
Vi sono alcuni particolari gravi e inquietanti in questa “domanda retorica” posta da Galli della Loggia, soprattutto tenendo conto che compare in una replica scritta, costruita con attenzione in diversi giorni in cui le parole e i pensieri sono stati ben ponderati e sicuramente rivisti diverse volte.
Innanzitutto la frase corretta di Lettera a una professoressa” è «Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali», ed è riferita alle diseguaglianze sociali cui occorre porre rimedio per non escludere nessuno e perché la scuola non diventi «uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile [e] strumento di razzismo».
Quel razzismo che, invece, sembra trasudare da quel «ciò che è diseguale», con cui l’intellettuale si riferisce agli alunni con disabilità, quasi reificati per sancirne la costituzionale e biologica diseguaglianza, con conseguente necessità di espulsione e segregazione (ma, si badi bene, non solo per il bene della scuola, ma anche perché “gioverebbe di più” a loro).
In quel «ciò che è diseguale» si può ravvisare il preoccupante riemergere di un pensiero improntato a quello che Michel Foucault definiva “razzismo di Stato”, un razzismo biologico «che una società esercita contro sé stessa, contro i suoi propri elementi e che è una delle dimensioni fondamentali della normalizzazione sociale».
Con il “razzismo di Stato” si introduce nella società una separazione tra ciò che può/deve vivere e ciò che può/deve morire sulla base di una cesura di tipo biologico, collegando, inoltre, la morte di chi è ritenuto «diseguale, inferiore, anormale, degenerato», a un miglioramento e a una purificazione della vita in generale. Chiaramente quando parla di morte Foucault non intende semplicemente «l’uccisione diretta, ma anche tutto ciò che può essere morte indiretta […] o più semplicemente la morte (sociale e) politica», che passa attraverso l’espulsione, il rigetto, la segregazione, l’istituzionalizzazione, la marginalizzazione, ma anche attraverso la riduzione di fondi e risorse dedicate e il progressivo peggioramento delle condizioni di vita (Michel Foucault, Bisogna difendere la società).
Meccanismi che non erano, quindi, patrimonio solo della Germania nazista (in cui con l’attuazione di Aktion T4 e del programma di eutanasia furono portati al parossismo), ma che, seppur spesso latenti, sono iscritti effettivamente nel funzionamento di tutti gli Stati moderni.
Perché, quindi, come si chiede l’intellettuale Galli della Loggia a proposito della sua affermazione, «il solo porsi una simile domanda deve essere equiparato quasi a una pagina del Mein Kampf?». Forse perché, come ricorda uno dei più autorevoli storici del programma Aktion T4, Henry Friedlander, il genocidio nazista non ebbe luogo nel vuoto, non fu altro che il metodo più radicale per escludere gruppi di uomini dalla comunità nazionale tedesca. Ebbe il suo fondamento nella diffusione di teorie “scientifiche” che sancivano l’ineguaglianza umana e «fu promosso da un’élite culturale che aveva accolto questa ideologia dell’ineguaglianza, sulla base della quale si svilupparono e diffusero anche le politiche di ostracismo e di violenza contro le persone con disabilità o con disturbi psichici, che hanno rappresentato il primo capitolo della tragica azione di sterminio nazista di quelle che furono definite dal regime “Vite non degne di essere vissute”» (Henry Friedlander, Le origini del genocidio nazista). Allora, come oggi, il disumano percorso di costruzione dell’indegnità di alcune vite non è stato e non è un percorso immediato né obbligato. È un percorso storico, culturale, scientifico e politico che va avanti per piccoli passi.
Definire come «ciò che è diseguale» gli alunni con disabilità, proporne l’istituzionalizzazione e contrassegnare come “mito” il diritto all’inclusione, presentandolo anche come una penalizzazione per la scuola e i percorsi scolastici degli altri studenti, rischia di essere uno di questi passi, non solo perché alimenta pregiudizi e contrapposizioni, ma perché sembra proporre surrettiziamente una pericolosa cesura tra chi si ritiene sia degno o indegno di partecipare e portare il suo contributo nella società, a partire da uno dei suoi primi e principali àmbiti di vita e socialità, ossia dalla scuola.