Essere bullizzati per la propria disabilità: la storia di Alessia

di OMAR*
«A 15 anni la mia vita era difficile. Non uscivo di casa, non avevo amici e iniziavo a dare segni di depressione. A scuola ero nel mirino dei bulli»: a raccontarlo in occasione della recente Giornata Nazionale contro il Bullismo del 7 febbraio è stata una giovane con una patologia mitocondriale che le causa sia disabilità visiva che motoria. E oggi che fortunatamente è riuscita a superare quella difficile esperienza personale, ha anche il desiderio di essere vicina alle tante ragazze e ragazzi che vengono esclusi o bullizzati per la propria disabilità e diversità

Fotografia di una donna nell'oscurità«A 15 anni la mia vita era difficile. Non uscivo di casa, non avevo amici e iniziavo a dare segni di depressione. A scuola ero nel mirino dei bulli»: è iniziato così il racconto di Alessia M., in occasione della recente Giornata Nazionale contro il Bullismo del 7 febbraio [istituita nel 2017 dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, N.d.R.].
Alessia ha 22 anni e vive in provincia di Torino, con i genitori e la sorellina. All’età di 3 anni le viene diagnosticata l’atrofia del nervo ottico bilaterale, a 11 i medici parlano per la prima volta di sindrome di Behr dovuta a Opa1, oggi meglio definita come atrofia ottica sindromica con mutazione del gene Opa1.
«La mia storia – racconta – comincia alle scuole materne, quando le maestre si accorgono che non riesco a seguire alcuni giochi. Non è chiaro se ho problemi di vista o di comprensione, ma dalla visita oculistica risulterà che non vedo bene: ho un’atrofia del nervo ottico bilaterale che mi rende ipovedente. Da lì cominciano le cure e gli accertamenti». I ricoveri si susseguono, ogni anno trascorre alcune settimane in ospedale per fare fisioterapia e riabilitazione: «Col tempo è diventato chiaro che i miei problemi di equilibrio non dipendono dal fatto di essere ipovedente, ma sono frutto di un problema neurologico legato alla patologia».

«La malattia di Alessia oggi è più correttamente denominata atrofia ottica sindromica che in molti casi è dovuta a mutazioni del gene Opa1 – spiega Valerio Carelli dell’IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche (ISNB) all’Ospedale Bellaria (Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie-DIBINEM dell’Università di Bologna) –, un gene deputato a fornire istruzioni per produrre una proteina che aiuta a determinare la forma e la struttura dei mitocondri. Si tratta infatti di una patologia mitocondriale, che associa all’atrofia ottica familiare con esordio infantile una serie di segni piramidali come paraparesi spastica, atassia e altre sintomatologie extraoculari variabili. I pazienti che ne sono affetti possono manifestare disturbi dell’equilibrio e della marcia, quindi oltre alla disabilità visiva presentano anche una disabilità motoria più o meno accentuata».

Tra la fine delle scuole elementari e l’inizio delle scuole medie le cose per Alessia si complicano: le interazioni sociali diventano più complesse, i rapporti con gli altri conquistano il centro della scena. Accettarsi e sentirsi accettata diventa difficile, soprattutto a scuola, dove comincia a presentarsi il problema del bullismo. «Dalla fine delle scuole elementari ai primi tre anni delle scuole superiori i compagni mi prendevano in giro – racconta la giovane -, ridevano per come camminavo, per come avvicinavo il telefono al viso, per il fatto che non vedevo bene. È stata molto dura. Ogni volta che uscivo di casa mi veniva la tachicardia e cominciavano a presentarsi i segni di una depressione incipiente».
Come sempre avviene nei casi di bullismo, per gli adulti è difficile intervenire. Alessia non sa come comportarsi e a 15 anni sta chiusa in camera tutto il giorno, si affaccia anche lo spettro di un disturbo alimentare. «Avevo la paranoia di essere ingrassata – dice la ragazza -. Non accettare la propria disabilità impatta anche sugli altri aspetti della vita. Mi dicevo: oltre a essere disabile, sei pure grassa, chi ti vuole?».
Per uscire da questo tunnel c’è voluto il sostegno di una psicologa e tutta la forza possibile. «A un certo punto mi sono resa conto che il mondo andava avanti lo stesso e che io dovevo trovare il modo di farcela, non potevo continuare a fare quella vita».
Oltre al percorso psicoterapeutico, per Alessia è stato importante il sostegno dei genitori, alcune amiche conosciute fuori dalla scuola e il ragazzo con cui è stata per quattro anni. «Oggi sono più forte, continuo ad avere delle delusioni, ma non mi abbatto più come prima e sono diventata una persona in grado di reagire».

Dalla sua difficile esperienza personale Alessia non ha tratto soltanto una maggiore consapevolezza delle sue potenzialità, ma anche il desiderio di essere vicina alle tante ragazze e ragazzi che vengono esclusi o bullizzati per la propria disabilità e diversità. «È necessario parlare di più di disabilità, omosessualità, violenza contro le donne – scandisce -. E poi non bisogna dimenticare che anche i bulli hanno dei problemi: spesso sono più fragili di quelli che bullizzano e sono i primi ad avere bisogno di aiuto, perché se per stare bene hai bisogno di prendertela con qualcuno è segno che c’è qualcosa che non va».
Alessia però vuole mandare anche un secondo messaggio, questa volta rivolto a persone con la sua stessa patologia: «Mi hanno detto che sono l’unica in Italia ad avere la sindrome di Behr con compromissione dell’apparato visivo e di quello motorio. Ma magari esistono altri ragazzi e ragazze con le mie stesse caratteristiche. Ecco, se ci sono, mi piacerebbe conoscerli».

«Per questa malattia attualmente non esiste una cura – ricorda Carelli –, ma per l’atrofia ottica oggi la ricerca scientifica e farmacologica, specie nell’àmbito della terapia genica, sta facendo passi da gigante. Sappiamo bene che l’occhio è uno degli organi che meglio si prestano ad approcci di terapia genica, purché la capacità visiva non sia irreversibilmente compromessa. Per questo è fondamentale che questo tipo di patologie siano diagnosticate precocemente anche dal punto di vista genetico, così che ai giovani pazienti non sia preclusa la possibilità di una sperimentazione clinica».
«Per la neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON) – prosegue lo specialista – esistono già delle evidenze significative sulla terapia genica, che certamente apriranno la strada a successive applicazioni della stessa metodica per il trattamento di altre atrofie ottiche. Io sono cautamente ottimista e ritengo che nei prossimi dieci anni le prospettive terapeutiche per queste patologie saranno notevoli. Saranno certamente necessari degli investimenti e sarebbe auspicabile un cambio di paradigma dell’iter regolatorio, che attualmente prevede regole che rendono eccessivamente complesso l’approccio traslazionale, oggi più che mai fondamentale per garantire la sostenibilità. Un domani probabilmente potrebbe concretizzarsi anche la possibilità di una terapia basata sulle cellule staminali destinate a ricostituire il nervo ottico, ma certamente la terapia genica, in particolare l’applicazione del gene editing, è una prospettiva molto più concreta. Per quanto invece riguarda il trattamento con terapia genica delle sintomatologie relative al coinvolgimento del sistema nervoso centrale, questo rimane più problematico sebbene rimanga un obiettivo da perseguire. Ci viene però in aiuto la tecnologia riabilitativa, che certamente ha raggiunto oggi uno standard estremamente elevato. Resta però il fatto che questi pazienti devono affrontare una disabilità importante, e la storia di Alessia ci insegna quanto sia fondamentale porre attenzione anche e soprattutto agli aspetti sociali delle patologie rare».

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