Proprio oggi abbiamo segnalato in altra parte del giornale come la Federazione lombarda LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), insieme ad altre diciassette organizzazioni impegnate in Lombardia per i diritti delle persone con disabilità, abbia lanciato un nuovo appello al Governo Nazionale e alla Giunta della propria Regione, affinché trovino insieme il modo di scongiurare i tagli ai contributi a supporto dell’impegno dei caregiver familiari, un provvedimento che rischia di penalizzare migliaia di persone con disabilità e che, come aveva rilevato anche la FISH Nazionale (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), potrebbe essere ripreso in modo analogo anche da altre Regioni.
Riceviamo ora il seguente contributo di riflessione di Giovanni Merlo, direttore della LEDHA, che chiarisce ulteriormente quali siano i termini della questione di cui si parla.
Il punto di partenza non può che essere la constatazione che la spesa pubblica destinata alla disabilità sia insufficiente e notevolmente inferiore alla media europea (Report ISTAT 2023, La spesa dei comuni per i servizi sociali. Anno 2020).
Il sistema di welfare sociale italiano per la disabilità si basa sull’impegno e sul coinvolgimento delle famiglie, sia in termini di lavoro di cura che di gestione complessiva. Anche nella Regione Lombardia, dove pure è presente una rete articolata di servizi diurni e residenziali che accoglie circa 23.000 persone con disabilità*, la situazione non cambia di molto: anche per le persone che frequentano, ad esempio, i centri diurni la famiglia rimane il punto di riferimento fondamentale.
La possibilità di poter ricevere un sostegno tramite il Fondo Nazionale per la Non Autosufficienza (d’ora in poi FNA) ha fatto emergere la presenza di più di 25.000 persone con disabilità (Dati tratti dalla Delibera di Giunta della Regione Lombardia n. 1669/23: 10.662 al 31 ottobre 2023 in carico alla Misura B1 e 16.128 in carico alla Misura B2 al 30 settembre 2023), che vivono a casa loro, in gran parte assistite dai loro familiari. Il numero diventerebbe decisamente più alto, se considerassimo le tante persone con disabilità che, pur avendo un forte bisogno di sostegno, rimangono, per carenza di risorse, escluse da questo tipo di contributi.
È altrettanto noto che la gran parte dei sostegni viene offerta in forma di erogazione economica: questo perché l’unico vero livello essenziale di assistenza ancora presente nel nostro Paese sono le provvidenze economiche, in particolare l’indennità di accompagnamento.
In questo contesto, la gestione dell’FNA, fino ad ora, ha preso atto della situazione e si è preoccupata di sostenere la scelta di vivere a casa propria di migliaia di persone con “gravissima e grave” disabilità, erogando contributi sia in favore di chi viene assistito da un caregiver familiare sia di chi si avvale di un caregiver professionale, come ad esempio un assistente personale, favorendo, da un punto di vista economico, la scelta di questi ultimi.
A partire da quest’anno si introduce il vincolo di utilizzare una parte consistente di queste risorse (il 15% nel 2024, il 25% nel 2025) attraverso servizi diretti, di assistenza domiciliare o di sollievo, erogati direttamente dai Comuni, quasi sempre attraverso enti gestori accreditati, come ad esempio Cooperative Sociali o Fondazioni.
L’obiettivo, con tutta probabilità, è quello di riequilibrare un sistema di welfare considerato eccessivamente sbilanciato sull’offerta di risorse economiche a scapito dei servizi, ritenendo evidentemente questo il principale problema che causa le persistenti condizioni di disagio e di discriminazione delle persone con disabilità.
Dal primo giugno prossimo, dunque, le 7.000 persone con gravissima disabilità della Lombardia che si avvalgono del sostegno del caregiver familiare e una parte significativa delle persone con disabilità che percepiscono il contributo dell’FNA tramite i Comuni (Misura B2) vedranno ridurre in modo considerevole il sostegno economico che alcuni ricevono da diversi anni e su cui hanno basato i loro progetti di vita. In cambio potranno forse ricevere un servizio comunque non richiesto: il condizionale sarebbe d’obbligo perché risulta difficile immaginare che tutti i Comuni della Lombardia riusciranno in cinque mesi a organizzare servizi sufficienti e adeguati per un numero molto alto di persone con disabilità, spesso non conosciute dai servizi sociali, con caratteristiche ed esigenze molto diverse fra loro e in un momento in cui è diventato molto difficile reperire persone disponibili a lavorare nell’àmbito sociale.
La prima conseguenza di questa scelta, quindi, è che le persone con disabilità coinvolte vedranno peggiorare la loro qualità della vita: un risultato che basterebbe da solo a giustificare il ritiro o, quanto meno la proroga dell’applicazione del provvedimento.
Ma è importante sottolineare trattarsi anche di una scelta non condivisibile perché limita le possibilità delle persone con disabilità di decidere come vivere, a partire dalla possibilità di scegliere da chi farsi assistere.
Oggi, alla luce dell’approccio alla disabilità basato sui diritti umani, la partita non è più “Servizi vs Erogazioni economiche”, ma “Indipendenza vs Limitazione della libertà”.
La logica della personalizzazione degli interventi, che è ormai norma tanto a livello nazionale che regionale, discende direttamente dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Personalizzare non significa solo o tanto redigere per ciascuna persona con disabilità un progetto individuale di intervento. Questo viene fatto ormai da diverso tempo e non ha cambiato, sostanzialmente, la situazione. Personalizzare significa riconoscere che ogni persona, indipendentemente dalle sue compromissioni, ha diritto di decidere cosa fare della sua vita e che, quindi, il sistema dei sostegni non deve più agire per rispondere genericamente agli interessi o ai bisogni della persona, ma per perseguirne la volontà, i desideri, le preferenze e le mete.
In questa visione diviene incomprensibile come possa essere ritenuto migliore un servizio di assistenza domiciliare rispetto all’assistenza personale autogestita dalla persona con disabilità o al sostegno offerto da un familiare, come invece viene affermato, di fatto, dal Piano Nazionale per la Non Autosufficienza e poi da quello Regionale lombardo di gestione dell’FNA. Così come diviene incomprensibile che un qualunque miglioramento delle condizioni materiali di vita delle persone con disabilità possa avvenire non aumentando le risorse, ma semplicemente spostandole dalla disponibilità della persona a quella degli operatori.
La sfida che abbiamo di fronte è quella di come poter garantire a tutte le persone con disabilità di esprimere effettivamente le proprie volontà e di come fare in modo che il sistema dei sostegni, in tutte le sue articolazioni, possa sostenere le intenzioni e le ambizioni della persona. Una sfida complessa e difficile che è stata recentemente assunta a livello nazionale dalla Legge Delega 227/21 in materia di disabilità e a livello della Lombardia dalla Legge Regionale 25/22 (Politiche di welfare sociale regionale per il riconoscimento del diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità). Una sfida che invece viene rigettata dall’implementazione del Piano Nazionale per la Non Autosufficienza, ancorato ad una visione e ad una lettura del nostro modello di welfare non più adeguata e lontana dalla realtà.
*Giovanni Merlo, Roberto Franchini, Alice Melzi, Welfare sociale e disabilità in Lombardia 2018-2023. Cambia il discorso?, in In cerca di un nuovo modello. Lo stato del welfare in Lombardia, a cura di Cristiano Gori, Cecilia Guidetti, Valentina Ghetti e Francesca Pozzoli, Maggioli, 2023.
Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Il presente contributo è già apparso in «Lombardia Sociale.it» e viene qui ripreso – con minime modifiche dovute al diverso contenitore – per gentile concessione.
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