Inizierò questo articolo con un approccio diretto, senza pietismo o fronzoli: quanti , leggendo il titolo, avranno pensato «si parla di persone handicappate», «per fortuna (o grazie a Dio per i credenti) non sono disabile non ho nessuno in famiglia» o anche «poverine/i che vita sfortunata»… ecco questi pensieri e frasi rientrano nell’abilismo.
Iniziamo dal linguaggio dicendo che la forma corretta è “persona con disabilità” non persona disabile, ma con una disabilità, perché prima della nostra disabilità siamo persone; non diversamente abile perché non abbiamo abilità diverse dagli altri e handicappata/o è un’offesa.
Sapete, io non mi sento sfortunata e non lo scrivo per una forma autoconsolatoria, ma credo in generale che quello che ci accade nel bene, ma soprattutto nelle difficoltà, ci debba insegnare qualcosa e ci debba anche far scoprire le nostre risorse e migliorarci come individui.
Penso che la disabilità vada a confliggere con il nostro modello di società perché si ha ancora l’idea che una persona con disabilità debba essere accudita, protetta e assistita e sia quasi un peso nella nostra società iperproduttiva e lo dico senza peli sulla lingua. Ecco, questo è profondamente sbagliato perché se ci pensate bene è la società che non è in grado di accogliere tutte le caratteristiche delle sue e suoi cittadine/i, è la società ad avere una disabilità.
La conferma arriva dai dati contenuti in un recente rapporto sui diritti umani dell’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, dedicato al Diritto al lavoro, che restituisce un’immagine desolante della situazione occupazionale e lavorativa dei cittadini con disabilità nell’Unione Europea.
L’Italia è nel gruppo più “di mezzo” col 51,6% di occupati. Qui si dovrebbe parlare di giustizia sociale e dignità dell’essere umano e non di una qualche forma di assistenzialismo perché noi persone con disabilità possiamo studiare e lavorare, se lo Stato fosse – non solo con la legge sull’inclusione lavorativa (Legge 68/99 [Norme per il diritto al lavoro dei disabili, N.d.R.]) – attivamente e strutturalmente organizzato per lavoratrici/lavoratori che chiedono gli stessi diritti degli altri cittadini.
Piccolo inciso: se qualcuno pensa che siamo già fin troppo tutelati, vi dico che la pensione di invalidità supera di poco i 300 euro (se sei disoccupata/o) e l’indennità di accompagnamento viene data in casi gravissimi con un importo pari a euro 531,76 euro. Ci dovete aggiungere spesso visite private (non abbiamo come tutti i comuni mortali corsie preferenziali) e assistenza domiciliare, poi gli ausili o forme di sussidi con progetti che non sempre vengono erogati.
Un termine usato da un’attivista per i diritti delle persone con disabilità che mi piace molto è “temporaneamente normo abili” per indicare che tutti prima o poi potremmo trovarci in un contesto che non risponde alle nostre caratteristiche fisiche e cognitive e non includente. Il problema è come la società gestisce quella che è una mia caratteristica. Faccio un esempio: io sono appassionata di fotografia e ho realizzato scatti che sono stati pubblicati su alcune riviste (con un discreto seguito su un social proprio per foto) e lì io non sono una persona con disabilità, ma lo sono subito dopo perché l’ascensore di casa mia è rotto e io rimango giù aspettando qualcuno che lo sistemi…
Pensare alla nostra vita come ad una tragedia o dire «io non vedo la tua disabilità» oppure «vedi quella persona senza un arto fa cose che tu non fai» è una forma di abilismo perché non è includendoci in una “normalizzazione” che possiamo sentirci all’interno della società o “accettate/i” (che brutta parola). Noi abbiamo una disabilità ma non per questo siamo meno di altri e se facciamo cose come o meglio di altre/i non siamo delle “eroine” o degli “eroi”. Siamo noi e basta.
Il presente testo è già apparso nella testata «lavoroesalute» e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.