Riceviamo da Simone Fanti, collega e amico di Antonio Giuseppe Malafarina, nostro direttore responsabile, il seguente contributo che ben volentieri pubblichiamo, ringraziandolo sentitamente.
Ciao Antonio, sei scappato via così, sfuggito alla vita in un attimo. Senza la possibilità di un ultimo saluto, senza l’occasione di cogliere un ultimo motto e un’idea illuminante, senza proferir parola. Tu che di parole eri maestro. Cesellate come pietre di fiume da una corrente di pensieri.
È mezzogiorno di una domenica, in un giorno piovoso, dopo la messa e tu ora non ci sei più. Non riesco a dirti addio, perché addio non è. Il tuo pensiero pungente, acuto e profondo aveva vinto su un corpo fragile e immobile e ora supera anche la morte fisica.
Se tu fossi qui forse ora mi sveleresti in confidenza che hai risolto il quesito della ragione che ti tormentava da un po’ e che ti faceva chiedere dell’esistenza di Dio, combattuto tra fede, rabbia contro il destino, e caparbia aderenza alla realtà. La stessa ostinazione del rimanere aggrappato alla vita nonostante tutto, con la barra sempre sicura verso la testimonianza dell’“importanza del vivere”. Una vita, la tua, aggrappata a sottili fili di seta, come il foulard che ti ricordo sempre al collo. Non c’è che dire, l’eleganza non ti è mai mancata. Un dandy attorniato da donne che seducevi con la potenza e la bellezza delle tue parole.
A inizio dicembre una crisi, una delle tante a cui avevi abituato i tuoi medici e soprattutto i tuoi genitori. Momenti che hai raccontato anche su queste pagine, regalando tutto te stesso ai lettori, come sempre: «Ricordo chiaramente una notte in cui mi trovo letteralmente in fin di vita», scrivevi. «Mi ero già trovato in una condizione simile anni fa: siamo di nuovo qui, a fronteggiarci… Cos’è la morte? Non lo so. Ma so benissimo che cosa la precede. Non bello. Non bello. Ne ho tante versioni».
Ti pensavamo eterno, coriaceo nella tua testardaggine e tu ci facevi sentire parte del tuo mondo svelandoci le tue intime paure. «Ti senti debole e spaventato», scrivevi. «La psiche ha paura, anche se tu sei la roccia che tutti pensano che sia». Già, anche quando un’amica della Fondazione Mantovani Castorina di cui eri presidente onorario mi aveva detto che «ti stavi lasciando andare» ho pensato «non è possibile».
Avevamo mille cose da fare: il Festival delle Abilità nel Parco della Chiesa Rossa di Milano su cui hai lasciato un’impronta indelebile, la mostra per il decennale della scomparsa di Franco Bomprezzi, il premio giornalistico Cernuschi che ci hai aiutato a creare e a cui hai dato anima. E poi tutti i progetti in cui eri coinvolto: la direzione di Superando, Diwergo, il Dama, gli avatar e la tecnologia…
Amico no, non dovevi andartene! Troppo presto, lo spettacolo non si è ancora concluso. Abbiamo ancora da fare, mille battaglie contro un arretramento dei diritti delle persone (anche quelle con disabilità) erosi nel tempo; mille e una accesa discussione come abbiamo fatto per anni, mille riflessioni da chiudersi con una tua frase. Dobbiamo ancora vedere avverarsi la tua profezia e il tuo sogno che avevi sintetizzato in un aforisma, «Inclusione è una parola magica. Quando esiste svanisce». Dovevamo vedere questa magia insieme, ricordi?
Questa volta ti devo rubare la frase con cui chiudevi tutte le tue mail.
Un sorriso. Anche se, oggi, siamo molto più soli. Ma è più giusto chiudere urlando «Grazie Antonio Giuseppe!».