Sono chiamate sindromi dello spettro autistico ad alto funzionamento cognitivo. Abbiamo imparato a conoscere la sindrome di Asperger, un po’ più famosa da quando l’attivista per l’ambiente Greta Thunberg ha dichiarato di averla; secondo alcune teorie era una condizione che caratterizzava anche Albert Einstein.
Qui dobbiamo far cadere il primo innocente luogo comune. “Autismo ad alto funzionamento” e “sindrome di Asperger” sono infatti definizioni che vengono ancora utilizzate in modo informale, ma sono da tempo scomparse da numerosi manuali diagnostici, come il DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), pubblicato dall’APA (American Psychiatric Association), che classifica i disturbi dello spettro autistico in base al livello di supporto che una persona richiede.
Secondo, più importante, luogo comune da sfatare: l’autismo non viene sempre diagnosticato durante l’infanzia, proprio le neurodiversità ad alto funzionamento che non implicano una disabilità cognitiva rimangono infatti sullo sfondo nella vita di molti, ma ne influenzano le relazioni con l’ambiente e con gli altri, venendo sovente scambiate per patologie mentali che nulla hanno a che vedere con l’autismo, quindi sono trattate in maniera inefficace.
Soltanto il 30% circa delle persone autistiche presenta una vera disabilità, il restante 70% può avere semplicemente difficoltà di comunicazione sociale e richiedere sostegno per gestire i cambiamenti. Scoprirlo da grandi equivale a perdere anni alla ricerca di un’identità, subire lo stigma di chi ti considera nel migliore dei casi “strano”, finendo per dissimulare il proprio autentico essere con una serie di strategie che diventano routine.
A volte la diagnosi non arriva mai, qualche volta viene alla luce dopo i 18 anni, non di rado sopra i 30-40. Quest’ultimo è il caso di Lidia Peregrini, quarantatreenne milanese, che ha ricevuto la diagnosi definitiva e completa nel dicembre 2023.
Lidia conduce una vita normale, è una donna brillante, estremamente intelligente e simpatica. Ha due figli di 17 e 18 anni con i quali vive insieme ad un piccolo zoo di quattro gatti e un cane. Vive ad Abbiategrasso (Milano), è diplomata all’istituto magistrale con sperimentazione lingue estere e attualmente svolge piccoli lavoretti come assistente alle persone anziane, un impiego che le permette di frequentare il corso di formazione per diventare operatrice socio sanitaria. La decisione di intraprendere questo percorso formativo l’ha presa poco dopo aver ricevuto la diagnosi.
Quanto è stato difficile arrivarci?
«Nel mio caso molto, ho seguito più di un percorso terapeutico nell’arco della vita, con risultati più o meno deludenti. Secondo la mia ultima terapeuta, la mia diagnosi era “disturbo di personalità borderline” che si controlla anche con supporto farmacologico. Ho assunto, su prescrizione psichiatrica, stabilizzatori e ansiolitici per mesi, con risultati pressoché nulli. Ho iniziato a fare ricerche per conto mio, ho scoperto così che non di rado le donne autistiche vengono misdiagnosticate con disturbi di personalità o altre sindromi come il PTSD (stress post-traumatico). Più acquisivo conoscenze, più tutto sembrava chiaro».
La “diagnosi fai da te”, se così vogliamo chiamarla, è un passaggio comune a molti adulti con autismo come Lidia. I servizi socio-sanitari sono preparati di fronte a forme di autismo come la tua?
«Mi sento di dirti di no. Quando ho cercato un riferimento ho trovato solo strutture private. Ho deciso di rivolgermi a un centro specializzato nel diagnosticare l’autismo negli adulti e me ne è stato consigliato uno in provincia di Bergamo dove hanno confermato i miei dubbi. Si è capito il motivo per cui nessuno aveva mai sospettato che fossi autistica: avendo un quoziente intellettivo alto, inconsapevolmente, sono sempre stata in grado di mascherare i miei comportamenti e sopperire alle mie difficoltà imparando dall’esperienza. Mi sono chiesta: se io non avessi sospettato in autonomia di essere autistica e mi fossi rivolta a un centro di salute mentale pubblico, a qualcuno sarebbe mai venuto in mente di valutare l’autismo? Credo davvero di no, perché purtroppo è ancora estremamente diffusa la credenza secondo cui l’autismo si diagnostica da bambini e se una persona, a maggior ragione se donna, è riuscita ad arrivare a una certa età e ad avere un lavoro e/o famiglia, allora non può certamente rientrare nello spettro».
Già la National Autism Society, Associazione inglese che sostiene persone autistiche e le loro famiglie, ha evidenziato che soltanto un quinto delle donne con questa condizione ha ricevuto una diagnosi prima degli 11 anni, questo perché le donne hanno abilità cognitive elevate e capacità sociali più sviluppate degli uomini. Hanno un peso anche i pregiudizi di genere che spingono ogni bambina e ragazza a conformarsi a determinati stereotipi femminili. Tutto si traduce in una pressione sociale che induce alle strategie di mascheramento che anche Lidia ha messo in atto. Quali difficoltà comporta il tuo autismo nella vita quotidiana?
«Non esistono due persone autistiche uguali tra loro, quindi le mie difficoltà potrebbero non essere affatto condivise da altri. Ciò che invece molti abbiamo in comune è la tendenza, in seguito a una sovraesposizione a determinati stimoli, di andare in stati di sovraccarico dai quali uscire richiede molto tempo, a volte anche giorni. Io, che ho difficoltà sensoriali e relazionali, devo prestare attenzione a come organizzo le giornate. Se di mattina devo andare al centro commerciale, al pomeriggio è importante che abbia dei lunghi momenti di silenzio e possibilmente di solitudine. Nell’arco di una settimana difficilmente posso uscire in compagnia più di una sera, perché ho bisogno di ricaricarmi, stando da sola o con i miei cari. In generale, a livello relazionale, questo accade molto più spesso proprio a chi è stato diagnosticato da adulto, perché siamo abituati a camuffarci (fare masking) per stare in mezzo alla gente, per “sentirci normali”, e per quanto possiamo diventare consapevoli, smettere di farlo è molto difficile, in parte perché viene automatico, in parte perché c’è ancora tanto stigma e spesso è più pratico fingere di essere ciò che non si è, piuttosto che combattere con l’ignoranza e la discriminazione».
Hai accennato alle difficoltà relazionali, può farci un esempio?
«Sono una persona molto letterale, quindi se un’amica mi dice “Ci vediamo nei prossimi giorni che ti devo raccontare la tal cosa”, mi aspetto esattamente questo: che nel giro di tre/quattro giorni ci incontriamo e parliamo della “cosa”. Generalmente, però, non accade, perché la frase del mio esempio non è da intendere alla lettera. Non hai idea di quante delusioni e quante litigate! L’ho scoperto solo in fase di diagnosi che il problema ero io che non distinguevo i vari tipi di comunicazione, non gli altri che ritenevo inaffidabili e superficiali».
Tornando al passato, il tuo percorso scolastico è stato influenzato dall’autismo?
«Sono riuscita a diplomarmi, con fatica, ma l’ultimo anno ho fatto quasi due mesi di assenza, rischiando già solo per questo di perdere l’anno. Sono stata fortunata perché avevo intorno persone che cercavano di comprendermi e di supportarmi, altrimenti sarebbe stato impossibile arrivare alla maturità, nonostante che studiare mi piacesse e nonostante anche i miei buoni risultati accademici. Avrei avuto bisogno di assecondare maggiormente i miei tempi, avrei voluto non essere costretta a interagire con tutti anche in momenti in cui non ne avevo la forza».
E dal punto di vista lavorativo?
«Ho svolto tanti lavori diversi, credo che l’autismo abbia inciso molto perché non riuscivo a riconoscere i miei limiti e spesso mi sono impegnata al di sopra delle mie capacità, non tenendo conto dello stress che mi causavano le interazioni sociali. Così spesso ho lasciato lavori perché semplicemente andavo in burnout [insieme di sintomi che deriva da una condizione di stress cronico e persistente associato al contesto lavorativo, N.d.R.]. Ho insegnato, ho avuto anche un mio negozio di prodotti biologici, ho lavorato per una grande compagnia telefonica… non mi sono fatta mancare niente!».
So che attualmente collabori con Scuola Inclusiva, un servizio di esperti dell’inclusione scolastica che offre consulenza alle famiglie e alle figure professionali coinvolte in quest’àmbito. Qual è il tuo ruolo all’interno di questo servizio?
«Porto la mia esperienza come persona autistica e faccio da “interprete” tra i due mondi, quello autistico e quello “neurotipico”. Inoltre, essendo madre, in alcuni casi può essere più facile per me comprendere i bisogni dei genitori che si rivolgono a noi, a maggior ragione quando si tratta di alunni con disabilità invisibili».
Doversi adattare ad un mondo su misura per i “neurotipici”, trovare continui stratagemmi per vivere in maniera simile agli altri non è affatto facile e comporta un dispendio energetico che, nel caso delle persone con autismo ad alto funzionamento, può essere molto alto per una banalità, senza possibilità di ricaricare le “batterie” con un’attività piacevole come una chiacchierata con un amico. Quando le “batterie” sono scariche, una persona autistica può non riuscire neppure a mangiare o a vestirsi?
«Spesso è molto complicato anche per noi stessi comprendere quanta energia abbiamo ancora a disposizione, è comprensibile che per chi ci sta intorno sia una vera sfida indovinarlo, ma credo che già ragionando in questi termini si possa fare un grande passo verso la comprensione e di conseguenza poter esserci di grande aiuto nei momenti di difficoltà».
Dal 2016 l’ISS (Istituto Superiore di Sanità) collabora al progetto europeo ASDEU (Autism Spectrum Disorders European Union), che raccoglie i dati relativi ai servizi dedicati agli adulti con autismo, un primo passo per risolvere queste problematiche che richiedono una rete integrata di supporto a livello sociale, sanitario ed educativo, oltre che una maggiore informazione anche tra gli operatori del settore.