Poco più di venticinque anni fa, esattamente l’8 marzo 1999, un evento legislativo “periodizzante”, ossia il Decreto del Presidente della Repubblica (DPR) 275/99, “rivoluzionava” la scuola italiana. Varato ai sensi dell’articolo 21 della Legge 59/97, istitutiva dell’autonomia scolastica, proprio dell’autonomia tale norma “strategica” costituisce il Regolamento, dettandone le specificità e le declinazioni.
In particolare, all’articolo 4, comma 2 quel Decreto demanda alle scuole l’autonomia didattica e all’articolo 5, comma 1, l’autonomia organizzativa, allo scopo di diversificare l’offerta formativa sulla base delle esigenze del contesto di riferimento e per rispondere in modo puntuale alle richieste formative dei genitori e degli alunni.
Il Regolamento dell’autonomia, dunque, costituisce il nuovo “Statuto” della scuola italiana, che ogni istituzione scolastica deve adeguatamente sfruttare, per garantire a ciascun alunno ampi spazi di autonomia e di flessibilità, ora per intervenire nel rendere flessibile l’assetto organizzativo dei tempi, degli spazi, delle classi, dei gruppi d’apprendimento, oltreché l’utilizzo funzionale dei docenti, ora per attivare insegnamenti opzionali, facoltativi e aggiuntivi, ora per innovare il campo delle metodologie e delle risorse strumentali, ora per tentare efficaci protocolli di ricerca e sperimentazione.
Conseguenza diretta dell’autonomia scolastica è il Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF, come da articolo 3 del DPR 275/99 e come “ribattezzato” dall’articolo 1, comma 14 della Legge 107/15). Esso è il documento costitutivo dell’identità culturale e progettuale di ogni istituzione scolastica, che ne esplicita le scelte in materia di progettazione curricolare, extracurricolare, organizzativa e didattica.
La flessibilità organizzativa e didattica, entrata quindi a pieno titolo e regime nel nostro sistema d’istruzione grazie al DPR 275/99 e in seguito rafforzata ulteriormente dalla predetta Legge 107/15 (cosiddetta “La Buona Scuola”) è, per così dire, la caratteristica “essenziale” della scuola dell’autonomia. Essa, pertanto, potrebbe e dovrebbe essere il principale strumento a supporto del processo di inclusione degli alunni con disabilità, in quanto è il mezzo indispensabile per adattare il curricolo alle necessità formative dell’allievo, rendendo possibili articolazioni organizzative diverse, nell’ottica di una personalizzazione e specializzazione della didattica.
Se utilizzata in tal senso, infatti, l’autonomia scolastica diventa senz’altro una “leva cruciale” per sviluppare processi inclusivi di insegnamento-apprendimento e per fornire risposte adeguate a tutti e ciascuno. Solo in tal modo, in pratica, l’inclusione cesserà di essere un semplice “incidente di percorso” o un fatto episodico, riuscendo finalmente a favorire la trasversalità delle prassi inclusive nei diversi ambiti degli insegnamenti curricolari ed extracurricolari, delle strategie didattico-educative, della gestione delle classi, dell’organizzazione dei tempi e degli spazi, nella prospettiva di una presa in carico globale da parte dell’intera comunità educante di tutti gli studenti, ivi compresi quelli con disabilità.
E pur tuttavia e nonostante il più recente Decreto Legislativo 66/17 sull’inclusione, di cui si attendono ancora diverse norme applicative, questa nuova prospettiva “inclusiva” della scuola italiana stenta a decollare e, cosa ancor più grave, il più delle volte non è percepita adeguatamente nemmeno dai genitori dei nostri ragazzi. Essi, infatti, continuano erroneamente a dimenticarsi spesso del lungimirante principio pedagogico del “sostegno del contesto” che sta alla base della normativa italiana sull’inclusione, insistendo invece colpevolmente sull’equazione: più ore del docente di sostegno uguale, necessariamente più qualità dell’inclusione. Ciò denota come il messaggio della “normale” didattica inclusiva sia solo in nuce nella scuola italiana e che la scommessa dell’autonomia sia ancora tutta da vincere.
In altre parole, voglio dire che la nomina dell’insegnante di sostegno con un numero adeguato di ore, pur rappresentando un sacrosanto diritto assolutamente esigibile dai nostri ragazzi e dalle loro famiglie, da sola e senza un “sostegno diffuso” garantito al contrario da ambienti veramente autonomi e flessibili, rischia di essere quasi inutile e di ripetere i “vizi capitali” del nostro attuale sistema di istruzione rappresentati dalla “deresponsabilizzazione” dei docenti curricolari nei confronti degli alunni con disabilità e della conseguente e scontata delega da parte loro del processo d’inclusione al solo collega per il sostegno.
Soltanto se l’imminente adozione dei Decreti Attuativi del Decreto 66/17, preannunciata dall’attuale Governo, promuoverà l’organizzazione di siffatti contesti accoglienti e inclusivi, dove tra l’altro il PAI (Piano Annuale per l’Inclusione) non sia un documento esclusivamente “sulla carta”, ma al contrario sia parte integrante della progettazione, della didattica e della valutazione delle Istituzioni Scolastiche, e dunque anche dei loro Piani Triennali dell’Offerta Formativa, si potranno realisticamente garantire per ogni allievo, anche con disabilità, quelle condizioni di pari opportunità nel raggiungimento del massimo possibile dei traguardi individualizzati e personalizzati d’istruzione, tanto decantate dalla recente normativa italiana sull’autonomia scolastica.
Pertanto, come auspicato a suo tempo dal compianto Luciano Paschetta su queste stesse pagine, l’autentica “rivoluzione” dell’autonomia scolastica sarebbe quella di sancire, nell’àmbito dell’attuale sistema di inclusione, il definitivo passaggio dal docente di sostegno al “sostegno del contesto”.