In sede di presentazione della Proposta di Legge per l’introduzione della “cattedra inclusiva”, la per formazione di tutti i docenti e per la reintroduzione dell’équipe pedagogica c’è un aspetto che, pur essendo a conoscenza di tutti, non è stato volutamente mai toccato, quello dell’assistente.
All’epoca, quando per la prima volta sono stata l’insegnante di sostegno in una classe dove si era iscritto un alunno con disabilità – parlo dei primi Anni Ottanta, ma sembra quasi un’epoca lontanissima, e di una scuola media non sperimentale né a tempo pieno o prolungato -, non c’era l’assistente, né quello specialistico né quello di base. Si faceva tutto noi insegnanti, curricolari e di sostegno, compagni e personale ATA [Ausiliario Tecnico Amministrativo, N.d.R.] e venivano previste un massimo di sei ore per classe, anche se in quella classe c’erano due alunni con certificazione. Ciò avveniva non solo per alunni scolarizzati o con disabilità lievi. C’era però l’équipe psico-medico-pedagogica.
Attualmente, nonostante ausili molto avanzati e corsi di specializzazione universitari, accompagnati da ulteriori aggiornamenti, spesso prevale, soprattutto per alcune disabilità, un diverso panorama: per l’alunno si richiedono “coperture orarie”, docenti di sostegno “formati” sulla specifica disabilità, assistenti di base per lo meno per tutta la durata della scuola primaria e secondaria di primo grado e spesso anche di secondo grado e, in sovrappiù, assistenti alla comunicazione, altamente formati essi stessi e spesso con specifica laurea.
Ecco, vorrei inserire nel dibattito in corso questa tematica: l’assistente specialistico. Per questa figura dai mille volti e dai mille nomi, ogni Regione italiana, in una folle rincorsa alla propria autonomia, ha stabilito compiti diversi, titoli di studio diversi, contrattazioni diverse. Tutto ciò va a sbriciolare ogni principio egalitario, in uno Stato di diritto.
L’assistente, comunque, in tutte le Regioni italiane gode di un uguale “status” di precarietà. A volte viene contrattualizzato dall’Istituto Scolastico direttamente, più spesso, in quasi tutte le Regioni, il “servizio” viene affidato, attraverso bandi al ribasso, a cooperative totalmente diverse tra loro. C’è così chi contrattualizza a cottimo, senza alcuna garanzia del lavoratore, senza copertura sanitaria, senza ferie riconosciute, chi invece garantisce sostituzioni immediate e coperture orarie (a prescindere dalla relazione creatasi), chi in assenza dell’alunno, utilizza in altra sede o altra mansione il proprio personale.
Pure gli assistenti alla comunicazione (ASACOM) svolgono spesso un compito speciale: seguono l’alunno dall’infanzia all’università, altre volte lo seguono sia a scuola che a casa, altre ancora, su semplice parere della scuola o della famiglia, sono spostati ad altro servizio, ad altro alunno.
Spesso, proprio perché seguono quel bambino da anni, gli ASACOM sono “portatori sani” di conoscenza e di metodologie, conoscono come comunicare con lui, strumenti idonei, linguaggi specifici, il Braille, la LIS (Lingua dei Segni Italiana), il puntatore, conoscono i protocolli da dover usare per disabilità inerenti aspetti neurologici, l’uso di medicinali, manovre per mobilizzare alunni carrozzati… Insomma, una specificità sul bambino e sulla disabilità difficilmente raggiungibile con qualsiasi corso formativo o master.
Allora che fare? Manteniamo alti gli steccati? Permettiamo di “diversificare i servizi” in base alla presunta autonomia regionale?