«Oltre dieci anni dopo [la pubblicazione del “Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea”, avvenuta nel 2011, N.d.R.], ci rendiamo conto che la condizione delle donne e delle ragazze con disabilità non è progredita come speravamo», così è scritto in un passaggio dell’Introduzione del Terzo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea 2023, un elaborato reso pubblico all’inizio di marzo dall’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, e disponibile, in lingua italiana, a questo link.
L’importante documento focalizza l’attenzione sull’empowerment e la leadership delle ragazze e delle donne con disabilità e propone strategie per promuoverli (una presentazione dello stesso è disponibile a quest’altro link).
Viene da chiedersi: come mai la causa delle donne con disabilità non progredisce? Come per tutti i fenomeni complessi le risposte sono diverse. Di certo hanno un peso cruciale gli stereotipi e i pregiudizi legati al genere e alla disabilità e anche il fatto che le istanze delle donne con disabilità non abbiano trovato la giusta attenzione né nei movimenti femminili e femministi, né in quelli delle persone con disabilità.
Operando chi scrive nell’àmbito dell’associazionismo delle persone con disabilità italiano, mi è più facile individuare le dinamiche presenti in questo contesto ed è su queste che si focalizza questa mia riflessione. Non che le prassi discriminatorie poste in essere da altri soggetti e in altri contesti abbiano meno rilevanza, ma, appunto, mi risulta più agevole descrivere i fenomeni che riguardano gli ambienti che conosco meglio.
Per inquadrare il tema è necessario fare una premessa. Viviamo e siamo immersi in una società nella quale coesistono diversi sistemi oppressivi – sessismo, razzismo, omofobia, abilismo, ageismo, classismo ecc. –, ed è dunque abbastanza probabile che anche noi abbiamo inconsapevolmente assimilato qualche idea preconcetta. Detto con una metafora: non possiamo vivere senza respirare, e poiché l’“aria è inquinata”, anche noi siamo quotidianamente esposti ad “inalare” una certa quantità di “virus velenosi”. Come ci possiamo proteggere? Ogni persona ha le sue strategie, io ho installato l’“antivirus” del “dubbio”. Questo significa che invece di dare per scontato che in me non c’è niente di sessista, razzista, classista, abilista ecc., parto dall’ipotesi contraria, ossia che dentro di me ci siano effettivamente degli elementi inconsapevolmente recepiti da tutti questi sistemi oppressivi.
Dedico dunque una discreta quantità di tempo ad analizzare tutte le mie convinzioni riguardo alle donne, alle persone di diverse etnie, alle persone povere, a quelle con disabilità ecc. Questa pratica va avanti da anni, e devo dire che mi sembra che il mio antivirus funzioni benino, visto che nel tempo mi ha aiutato a individuare e rimuovere parecchie “schifezze”. Ma disporsi a installare l’antivirus vuol dire smettere di focalizzare l’attenzione solo “sull’esterno”, e spostarla su di sé, intraprendendo un percorso di crescita personale.
Chi lavora su di sé migliora anche la società nel suo complesso, nonché i Gruppi, le Associazioni, le Organizzazioni di varia natura, giacché tutte queste formazioni sociali si compongono di individui. Inoltre chi lavora su di sé si sta ponendo obiettivi realistici, perché non possiamo cambiare gli altri/e, ma cambiare noi stessi/e è decisamente alla nostra portata.
Veniamo ora ad occuparci dell’associazionismo delle persone con disabilità italiano, prendendo come spunto un episodio abbastanza emblematico. L’ultimo e ancora vigente Secondo Programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità (adottato con il Decreto del Presidente della Repubblica-DPR del 12 ottobre 2017) è stato elaborato nell’àmbito dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità che, tra i suoi principali compiti, ha proprio quello di definire le politiche nazionali in materia di disabilità.
Alla redazione del Programma in questione hanno contribuito tutte (tutte!) le organizzazioni più rappresentative delle persone con disabilità italiane. Come sono state rappresentate le istanze delle donne con disabilità nel documento? Malissimo, se si pensa che il tema della violenza di genere, a cui le donne con disabilità sono più esposte delle altre donne, non è stato neanche menzionato (se ne legga a questo link). Qualcuna delle organizzazioni che hanno contribuito alla stesura di detto Programma si è assunta la responsabilità di questa discriminazione? Non mi risulta.
A livello di Osservatorio questa vergogna portò all’istituzione di uno specifico gruppo di lavoro su queste tematiche (il Gruppo 9), ora abolito nella nuova formazione dell’Osservatorio nella quale i tavoli di lavoro sono stati ridotti a cinque (se ne legga a questo link). Sembra di stare in un eterno “gioco dell’oca”, dove ad ogni lancio di dadi si ricomincia dal via. E le organizzazioni cosa hanno fatto? Molte hanno iniziato a proporre progetti e iniziative (soprattutto sui temi della violenza e delle discriminazioni multiple).
Tra le iniziative che personalmente ho apprezzato di più, vi sono state quelle finalizzate a promuovere l’autoconsapevolezza delle donne con disabilità (mi viene in mente, ad esempio, il progetto I>DEA – Inclusione >Donne, Empowerment, Autodeterminazione promosso dall’AISM, l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, che ne era capofila, in partnership con altri soggetti, e che si è concluso nel 2021).
Bene, si dirà, le organizzazioni hanno capito e hanno cambiato rotta. Non esattamente, nel senso che, in linea generale, mi sembra sia mancato quel lavoro introspettivo che quella discriminazione avrebbe dovuto far intraprendere. Provo a dirlo meglio.
Io ritengo che il motivo per cui le istanze delle donne con disabilità non sono state adeguatamente rappresentate nel Programma di azione sia principalmente che molte, anche se non tutte le organizzazioni di persone con disabilità, hanno ancora strutture e prassi operative patriarcali, e realizzare progetti rivolti all’esterno o alle stesse donne con disabilità, non sana questa criticità, perché per sanarla è necessario, appunto, spostare l’attenzione sulle strutture e sulle prassi delle organizzazioni.
Cosa vuol dire questo in concreto? Vuol dire assumere – in modo onesto e non giudicante – che un po’ di “veleno” se lo sono “respirato” anche loro, e che magari dovrebbero pensare ad installare un “antivirus”. A complicare le cose vi è il fatto che molto spesso né chi mantiene in piedi questo sistema, né le stesse donne con disabilità (che questo sistema lo subiscono) mostrano di avere consapevolezza di queste dinamiche. E finché si rimane in questa fase è difficile uscirne, visto che è proprio la consapevolezza la leva dell’emancipazione, e nessuno/a può sostituirsi ad un altro individuo (uomo o donna che sia) in questo percorso. Alla fine si tratta di smettere di raccontarsi che alcune dinamiche riguardino solo l’esterno, e di lavorarci a partire da una rivoluzione (interiore).
Tuttavia mi sembra anche che qui in Italia, per fortuna, qualche “rivoluzionaria” ci sia. Ci sono le sorelle Elena e Maria Chiara Paolini, due attiviste con disabilità meglio note come Witty Wheels, che, tra le altre cose, scrivono libri sull’abilismo con sguardo femminile, fanno formazione ovunque, usano bene i social, gestiscono un gruppo di confronto e condivisione tra parsone con disabilità che si chiama Tè, biscotti e abilismo.
Poi ci sono Marta Migliosi e Asya Bellia, altre due attiviste con disabilità, che in modo franco, diretto e competente, utilizzando come strumento due lettere aperte, sono riuscite a coinvolgere il movimento femminista e transfemminista Non Una Di Meno in un confronto politico – e dunque non meramente formale – sui temi dell’accessibilità alle persone con disabilità delle manifestazioni pubbliche e del femminismo intersezionale (se ne legga a questo link e nei testi segnalati a margine).
Tra le donne “rivoluzionarie” annovero anche quelle dell’Associazione DisabilmenteMamme: infatti, si deve alla loro intraprendenza e perseveranza se, ad esempio, alla Camera dei Deputati è stata presentata una Proposta di Legge che mira ad introdurre misure a sostegno delle madri con disabilità (se ne legga a questo link).
Cosa hanno in comune queste donne? Una visione e la voglia di realizzarla. Ma queste donne potrebbero fare ciò che fanno se fossero inquadrate nelle strutture e nelle prassi rigide e anacronistiche che ancora si trovano in molte, anche se non in tutte, le organizzazioni di persone con disabilità italiane? Onestamente non riesco a trovare nemmeno mezzo motivo per cui costoro dovrebbero accettare di lavorare in simili condizioni.
Se dunque sia le strutture che le prassi tuttora in essere non riescono a far emergere le istanze delle donne con disabilità (se ne legga a questo link), forse quelle strutture e quelle prassi andrebbero ripensate. A me sembra che sia esattamente questa una delle questioni più urgenti poste dal Terzo Manifesto del Forum Europeo sulla Disabilità.