Nei giorni scorsi, come riferito anche su queste pagine, la FISH Campania (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) ha informato di un’interessante Ordinanza del Tribunale Civile di Nocera Inferiore (Salerno), prodotta il 28 marzo scorso (disponibile a questo link), con la quale è stata condannata per discriminazione una ludoteca che aveva vietato l’ingresso ad una bimba con sindrome di Down, perché la ludoteca stessa non disponeva di un’apposita persona per evitare che la bimba si facesse male, mentre aveva fatto entrare il fratellino senza disabilità.
Il provvedimento è interessante perché il Giudice Monocratico ha effettuato un attento esame delle questioni pregiudiziali e del merito.
Quanto alle questioni pregiudiziali ha vagliato la posizione giuridica di legittimazione passiva al ricorso sia della dipendente che aveva materialmente vietato l’ingresso, sia del titolare, assente al fatto, il quale aveva stabilito nel regolamento che per l’accesso di bimbi con disabilità dovesse esservi un’apposita persona di custodia. Quanto a questo aspetto, il Tribunale ha riconosciuto la legittimazione del titolare, poiché egli aveva predisposto il divieto nel regolamento, anche se l’aveva previsto nell’interesse dell’incolumità dei bimbi con disabilità e non per volontà discriminatoria. La dipendente, quindi, era pienamente da ritenere quale “legittimata passiva”, dal momento che aveva impedito alla bimba l’ingresso.
Passando al merito circa le prove del fatto, il Tribunale ha tenuto presente l’articolo 28, comma 4 del Decreto Legislativo 150/11 che, in materia di discriminazione, stabilisce un’inversione parziale dell’onere della prova. La norma stabilisce infatti che il ricorrente non debba dimostrare la discriminazione, ma solo come sono andati i fatti, senza la necessità di dimostrare la volontà discriminatoria di coloro contro i quali è promosso il ricorso. Spetta pertanto ai convenuti di dimostrare che non abbiano compiuto discriminazione.
Il Tribunale, dunque, basandosi sul concetto di discriminazione contenuto nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge 18/09, e su quello di discriminazione contenuto nella Legge 67/06 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni), ha accolto il ricorso, poiché è il fatto del trattamento diseguale che integra la discriminazione, pur mancando la volontà dell’autore del fatto discriminatorio. Il Tribunale ha sostenuto infatti che nella ludoteca c’erano degli operatori per tutti i bimbi e ciò basta a ritenere che ci fosse una sorveglianza sufficiente, tale da consentire l’ingresso anche alla bimba con sindrome di Down.
Stante l’accertata discriminazione, il Tribunale ha condannato in solido il titolare e la dipendente al risarcimento dei danni non patrimoniali, liquidati equitativamente in 3.000 euro, più le spese di causa liquidate in 3.500 euro. Non ha invece accolto la richiesta di pubblicazione della Sentenza sui quotidiani della zona, poiché non vi è stata reiterazione del fatto discriminatorio.
Può sembrare strano che il titolare della ludoteca sia stato condannato per discriminazione, quando egli aveva predisposto un regolamento che richiedeva la presenza di un apposito custode per l’incolumità dei bimbi con disabilità. Invero, il Giudice ha ritenuto che la presenza in sala-giochi del personale predisposto per tutti fosse sufficiente anche per i bimbi con disabilità. E ciò mostra come sia la normativa antidiscriminatoria, sia la giurisprudenza applicativa della stessa siano molto “gelose” nel garantire al massimo le pari opportunità alle persone con disabilità. Sembra quindi che si vogliano evitare tutte le possibili scuse e pretesti che cercherebbero di giustificare le discriminazioni. Non per nulla l’articolo 2 della citata Legge 67/06 prevede che provvedimenti apparentemente “neutri” debbano essere condannati se di fatto producono discriminazione, anche senza o contro l’effettiva volontà dell’autore degli stessi.
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