Si stima che in Italia un bambino su 77 presenti un disturbo dello spettro autistico con una prevalenza maggiore nei maschi che sono 4,4 volte in più rispetto alle femmine. Sono dati dell’Istituto Superiore di Sanità, numeri importanti che impattano su migliaia di famiglie, spesso smarrite di fronte alla diagnosi, e nel mondo della scuola, chiamato ad accompagnare la crescita degli alunni e delle alunne. Un dato balza all’occhio: le diagnosi sono aumentate negli ultimi anni di circa duecento volte: dal valore di 5 su 10.000 degli Anni Novanta al valore attuale che negli Stati Uniti è di 260/10.000 e in Italia di 129/10.000.
È quanto rileva il Manifesto per ripensare l’autismo (disponibile a questo link), documento di recente promosso da un team di neuropsichiatri infantili, pediatri, pedagogisti e filosofi che partendo dai dati epidemiologici e scientifici provenienti da diversi Paesi, chiede un cambio di rotta nel modo di fare diagnosi e un approfondito ripensamento organizzativo dei servizi dedicati all’assistenza dell’infanzia.
«Come specialisti impegnati da decenni nel campo delle patologie e delle difficoltà evolutive dei minori sentiamo la necessità e l’urgenza di rendere noto alle autorità sanitarie e all’opinione pubblica la pericolosa situazione che regna nel campo della diagnosi e cura del disturbo dello spettro autistico»: è questo l’incipit del Manifesto che vede tra i primi firmatari i neuropsichiatri infantili Michele Zappella, Gianmaria Benedetti, Roberto Carlo Russo ed Emidio Tribulato, il pedagogista Daniele Novara, la psicologa Valeria Mazza e il filosofo Marco Macciò.
L’autismo è una condizione, anzi, è tante condizioni diverse tra loro che si manifestano con profili di funzionamento molto variabili, di cui si parla sempre con maggiore frequenza, un argomento dibattuto, quasi “di moda”, facile “bersaglio” di sensazionalismi per la credenza diffusa che tutte le persone autistiche abbiano doti eccezionali. Usciamo, dunque, dai facili luoghi comuni e addentriamoci nel Manifesto, parlando con due dei suoi promotori, Michele Zappella e Daniele Novara.
Perché, dunque, questo documento è necessario e a chi si rivolge? «Un Manifesto sull’autismo si rivolge a tutte le famiglie che abbiano un figlio/a perché egli/ella corre il rischio di una falsa diagnosi di autismo – dice Zappella -. I criteri diagnostici sono stati allargati verso il cosiddetto spettro autistico, che viene rifiutato da molti studiosi i quali preferiscono la definizione di autismo, che è un comportamento, spesso reversibile, ma che in alcuni casi corrisponde a un disturbo di maggiore stabilità».
Continua Novara: «Il Manifesto affronta un nodo particolarmente critico, ossia gli eccessi diagnostici e i falsi diagnostici. Gli specialisti espongono la loro preoccupazione per la serie di procedure cliniche che portano a un sovra-dimensionamento delle diagnosi di spettro autistico. Nel Manifesto si definiscono con molta chiarezza, ma anche con necessario rigore scientifico, le preoccupazioni in questo àmbito, per tutelare i bambini e le bambine da errori e da confusioni. In particolar modo, troppo spesso vengono considerate gravi delle condizioni cliniche che non lo sono, che sono di differente natura o che sono, addirittura, parte di una normale immaturità infantile».
«Dati falsati dai cambiamenti delle modalità diagnostiche – precisa Zappella – che oggi si fondano prevalentemente su test comportamentali che non sono in grado di fare una diagnosi differenziale capace di evidenziare la prevalenza di problematiche comunicative, educative e relazionali in famiglia». Ma quali sono, anche tra gli addetti ai lavori, i principali stereotipi che circondano le sindromi dello spettro autistico? «I principali, e peggiori, stereotipi definiscono inguaribile l’autismo che, viceversa, è una realtà molto più complessa, comprendente spesso situazioni reversibili».
Nella fascia 12-36 mesi, se un bambino/a si trova in una situazione di stress evolutivo, si può riscontrare un comportamento che richiama le manifestazioni autistiche, ma in realtà altro non è che una risposta psico-biologica con cui il piccolo/a si chiude in attesa che l’ambiente circostante cambi e lo possa guidare verso un percorso di crescita adeguato. Attualmente quale prassi si segue per diagnosticare l’autismo in Italia e quali interventi sono disponibili nel momento in cui la diagnosi è accertata? «Vi sono due strade principali per la diagnosi – spiega Zappella –: una si basa sull’uso di un test chiamato ADOS, l’altra sul creare una comunicazione adeguata col bambino/a e usare i criteri dell’ICD10f84 [dall’inglese International Classification of Diseases, la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] e della Childhood Autism Rating Scale (CARS) [scala di valutazione del comportamento autistico costituita da 15 “comportamenti”, a ciascuno dei quali, mediante l’intervista ai genitori e l’osservazione diretta, viene attribuito un punteggio, N.d.R.]. Gli interventi possono basarsi sull’uso dell’ABA (Applied Behaviour Analysis, ossia Analisi applicata del comportamento) con molte ore alla settimana fatte da terapisti, oppure dando ai genitori uno strumento di terapia come il Metodo Portage [programma educativo-riabilitativo strutturato ad indirizzo cognitivo-comportamentale, rivolto a soggetti in età evolutiva con disabilità medio-grave, N.d.R.] e altre strategie relazionali da svolgere in famiglia e a scuola».
Nel Manifesto si legge che nei Paesi che usano altri criteri e metodi diagnostici, i valori di prevalenza dell’autismo sono nettamente inferiori. Se da noi molte diagnosi risultano “affrettate”, di conseguenza le indicazioni terapeutiche non sempre sono indicate. «Oggi – sottolinea Zappella – sono possibili interventi in grado di migliorare enormemente la situazione tenendo conto del contesto pedagogico, funzionale e comunicativo dell’ambiente, dei sentimenti, delle emozioni e dei bisogni affettivi dei bambini». Secondo l’esperienza dei professionisti, infatti, pur non trascurando i sintomi e gli aspetti funzionali specifici, avvalendosi della collaborazione dei genitori, si possono aiutare i bambini e le bambine a reimpadronirsi del loro percorso evolutivo. Ma in tutto questo, quale ruolo gioca la scuola? «La scuola – spiega Novara – non prevede più la presenza del cosiddetto “bambino difficile”, quello un po’ oppositivo e un po’ caratteriale, ma solo l’invio ai servizi di neuropsichiatria. Peraltro quelli pubblici sono ormai oberati di richieste e così, negli ultimi dieci anni, sono nati ovunque centri privati specializzati. Centri che, ovviamente, appaiono compiacenti rispetto alle ansie genitoriali, promettendo di dare una mano sotto il profilo della certificazione clinica per ottenere il sospirato insegnante di sostegno. L’alunno viene messo in una condizione di dipendenza dai processi di aiuto a prescindere dalla veridicità scientifica e clinica dei motivi che hanno portato a questa neuro-diagnosi così grave».
Nel Manifesto si parla di “fobia dell’autismo” nelle famiglie, ma cosa si intende esattamente? «Le famiglie – dice Zappella – hanno timore (fobia) di una diagnosi di autismo che viene spesso presentata loro come irreversibile». «Anche i genitori – aggiunge Novara – subiscono l’etichetta di autismo, finendo nell’80% dei casi in una condizione di depressione che ovviamente non aiuta i figli. Ad aggravare il tutto, spesso la sindrome dello spettro autistico viene presentata come inguaribile. Affermazione non solo infelice, ma non corrispondente scientificamente alla realtà».
All’atto pratico, dunque, anche all’interno dei nuclei familiari, cosa sarebbe necessario fare? «Dal mio punto di vista – risponde Novara – andrebbero aiutati maggiormente i genitori sul piano educativo, evitando che i bambini piccoli dormano poco, che finiscano per passare un tempo insostenibile per il loro neurosviluppo davanti ai dispositivi digitali. In famiglia devono essere evitate situazioni di quasi “servilismo” talmente accentuate da compromettere le autonomie. È importante che i genitori riescano a essere sufficientemente educativi e non si mettano alla pari con i figli in una funzione quasi amicale, per poi utilizzare sistematicamente le urla per rimettere “le cose al loro posto” ossia per recuperare un minimo di autorità. Su questo versante i risultati, quando la pedagogia collabora con il livello neuro-psico-sanitario, sono straordinari e permettono di liberare bambini e bambine da etichette che non aiutano la loro crescita, ma specialmente permettono lo sviluppo di tutte le loro risorse, tenendoli invece dentro una bolla di dipendenza dal disturbo che non corrisponde poi alla realtà dei fatti».
Il Manifesto per ripensare l’autismo, rivolgendosi alle Autorità Sanitarie, alle Associazioni Scientifiche e al Ministero della Salute, chiede pertanto di avviare un lavoro di analisi dell’attuale situazione che tenga in considerazione le ricerche in àmbito mondiale, e domanda a colleghi e persone interessate di firmarlo per portare all’attenzione degli organi competenti il proprio appello.
Si tratta di un documento che intende sovvertire molte prassi e convinzioni consolidate sull’autismo, una condizione che dal 1943, quando per la prima volta venne descritta dal pediatra tedesco Leo Kanner, ha trovato nel tempo approcci molto diversi tra loro, sia per quanto riguarda la ricerca delle cause che la diagnosi e le possibili terapie.
Il presente approfondimento è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Una nuova visione dell’autismo per rompere un circolo vizioso”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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